TARANTO – Ma ricordiamo male, o ci avevano garantito che il problema delle emissioni di diossina a Taranto era stato risolto una volta e per tutte? Ad onor del vero, l’annuncio risale al 27 dicembre del 2011, dunque quando ancora le nostre istituzioni non avevano idea dello tsunami che stava per abbattersi sull’Ilva, e ad effetto domino sulle negligenze loro e dei sindacati, con la deposizione delle perizie chimica ed epidemiologica nell’incidente probatorio all’interno dell’inchiesta della Procura di Taranto nei confronti dell’Ilva per disastro ambientale doloso. Erano i bei tempi delle favole, in cui tutti si sentivano inattaccabili, azienda in primis. In cui si poteva addirittura spacciare l’Ilva attuale come un modello per le aziende europee. Di cose, da quel 27 dicembre, ne sono successe. Eppure, la Regione e l’ARPA non hanno fatto alcun passo indietro, né hanno sentito il dovere morale di smentire tale assunto.

Anche perché, aiutati dai dati delle quattro campagne di monitoraggio effettuate sul camino E 312 che dettero come risultato uno storico 0,3 (a fronte del limite di 0,4 nanogrammi per metro cubo imposto dalla legge regionale antidiossina del 2008), avevano di che festeggiare. Oggi, invece, a distanza di 10 mesi da quei giorni di giubilo, uno studio condotto nelle scorse settimane dal ministero della Salute sugli allevamenti presenti in un raggio di 10 km dall’Ilva, ha accertato nel 20% dei casi il superamento dei limiti di diossina ed altri cancerogeni. Non solo: perché secondo il modello statistico utilizzato dai ricercatori, gli sforamenti arriverebbero oltre il 30%. Secondo una nota del ministero, cinque prelievi su 25 campioni di latte raccolti tra il 26 settembre e l’8 ottobre in sette allevamenti di pecore e capre nell’area vicina allo stabilimento siderurgico “hanno avuto esito sfavorevole per superamento dei limiti per la somma di diossine e PCB diossina fissati dal Regolamento (CE) n.1881/2006”. Ma, si legge ancora nella nota del ministero, considerando insieme gli sforamenti del limite di legge ed una serie di risultati nella cosiddetta “forbice alta” e applicando un modello statistico “si evidenzia che, nell’area di studio, ci si attende che il 30% del latte di pecora sia contaminato in misura superiore la limite di legge”.

Lo studio in questione sarà pubblicato nei prossimi giorni sulla rivista “Epidemiologia e Prevenzione”. Ma oltre a questi dati, che per i tarantini di nuovo hanno ben poco, il ministero della Salute precisa un qualcosa che la dice lunga sulla realtà che ci è stata raccontata per anni: dal confronto effettuato tra gli esiti che vanno dal 2008 al 2012, emerge che “non vi sono variazioni significative da un punto di vista statistico in merito alla concentrazione di diossine e PCB diossina simili”. Nel corso degli anni quindi, nonostante le rassicurazioni di azienda, istituzioni, ARPA e sindacati sul fatto che i livelli di inquinamento fossero calati a seguito della bonifica degli impianti, almeno le quantità di diossina sono rimaste le stesse, spiega il ministero. Certamente però, il ministero della Salute e quindi lo Stato, non possono lavarsi la coscienza con l’aver effettuato tale studio. Perché nel lontano febbraio del 2010, fu proprio la Regione Puglia, attraverso l’ordinanza della Giunta Regionale n.176/2010, a intimare il divieto assoluto di pascolo in un raggio di 20 km dalla zona industriale di Taranto. Divieto, è bene ricordarlo, ancora in atto. A spingere la Regione a tale decisione, furono proprio gli alti livelli di diossina e policlorobifenili (PCB) presenti nelle produzioni zootecniche dell’area.

L’articolo 2 dell’ordinanza stabiliva “il divieto di pascolo sui terreni non aventi destinazione agricola, ricadenti entro un raggio di non meno di 20 km attorno all’area industriale di Taranto. Nelle stesse aree, i terreni ad uso agricolo, dovranno obbligatoriamente subire le necessarie lavorazioni per poter essere destinate al pascolo o alla produzione di alimenti per gli animali. I sindaci dei comuni della Provincia di Taranto interessati sono incaricati dell’osservanza della presente ordinanza ed il personale di vigilanza del Dipartimento di prevenzione della ASL TA, gli agenti di Polizia Urbana e della forza Pubblica in generale, del controllo e della esecuzione”. Il monitoraggio condotto dal Dipartimento di Prevenzione della ASL TA per la ricerca di PCB e diossina nelle produzioni zootecniche degli allevamenti presenti intorno all’area industriale, portarono la regione Puglia a vietare sia il pascolo sia il consumo dei fegati degli ovi-caprini presenti negli allevamenti a rischio, e a disporre il sequestro e la distruzione sistematica di tutti i fegati regolarmente macellati, presenti negli allevamenti insistenti entro un raggio di 20 km. Ma prima di tale decisione, nel dicembre del 2008, era iniziato il drammatico abbattimento di migliaia di pecore e capre contaminate da diossina, che mandò in rovina decine di famiglie di storici allevamenti, come le masserie dei Fornaro e dei D’Alessandro.

Dunque, il problema era noto da tempo: e si poteva e doveva intervenire all’epoca. Oggi, il tutto appare decisamente fuori tempo massimo. Vogliamo inoltre ricordare ancora una volta che dal 1 gennaio, non si hanno notizie di nuove campagne di monitoraggio sul camino E 312. Del resto, l’assunto sostenuto da Ilva, Regione e ARPA Puglia, venne sbriciolato dai risultati della perizia chimica depositata lo scorso 27 gennaio, che dimostrò come i livelli di diossina e PCB rinvenuti negli animali abbattuti e nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto, erano da attribuire alla specifica attività di sinterizzazione (area agglomerazione) svolta all’interno di ILVA: non del camino E 312, quindi. Oggi però, abbiamo certezza di qualcosa di ancora più grave: che non solo l’inquinamento da diossina non è affatto cessato, ma che è penetrato da tempo nella nostra catena alimentare. Provocando danni inimmaginabili alla nostra salute. Addirittura, sono state trovate tracce di diossina sulle foglie di un uliveto: una devastazione ambientale senza precedenti. Uno scempio da fermare quanto prima, nonostante l’Ilva, i sindacati, Confindustria, Governo e istituzioni locali, siano del tutto contrari all’interruzione della produzione del siderurgico. I quali, probabilmente, non attendono altro che la morte definitiva dell’ambiente del nostro territorio, per convincerci che a quel punto, tanto vale continuare a produrre. E’ bene dunque che un giorno non troppo lontano, tutti costoro rispondano davanti ai tarantini ed alla giustizia del loro “operato”. Infine, sono diventate esecutive le prescrizioni della Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), dopo la pubblicazione su Gazzetta Ufficiale n. 252 del 27 ottobre del decreto firmato venerdì dal ministro dell’Ambiente. L’ennesima, ridicola, beffa per questo territorio.

Gianmario Leone (TarantoOggi del 31 ottobre 2012)

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