Di fatto, significa che su 1.760 addetti in organico nello stabilimento siderurgico di Cornigliano, ogni giorno 515 non saranno al lavoro, 65 in più dei 460 precedenti. L’azienda ha giustificato questo provvedimento esclusivamente per motivi di natura congiunturale. Una soluzione che dunque conferma le difficoltà del mercato della siderurgia dell’Ilva, che non a caso è in posizione di attesa per quanto riguarda Taranto, dove la chiusura dell’altoforno 5 (la linea produttiva da 3,5 milioni di tonnellate) avrebbe un effetto a cascata su Cornigliano, Novi Ligure e Racconigi.
D’altronde, dopo la chiusura dell’altoforno nel 2005, quest’ammortizzatore sociale ha permesso di gestire senza eccessivi danni per i lavoratori la pesantissima crisi economica che si è abbattuta sul settore, proprio negli anni in cui a Genova si stava realizzando l’accordo sulla riconversione dell’impianto siderurgico dal caldo al freddo. Accordo di programma che permise la salvaguardia dell’occupazione con un investimento di 700 milioni di euro da parte del gruppo Riva per abbattere i vecchi impianti inquinanti e sostituirli con nuovi impianti a freddo. A Taranto, “stranamente”, i soldi mancano: sul piatto sono stati messi appena 400 milioni per intervenire sull’intera area a caldo.
Lo stop alla “zincatura 4”
La minaccia di Fincantieri
Ma a Genova, oltre a tenere il fiato sospeso per la situazione di Taranto, non c’è soltanto l’Ilva. Lì opera uno dei maggiori clienti del Gruppo Riva, Fincantieri – Cantieri Navali Italiani S.p.A., uno dei più importanti complessi cantieristici navali d’Europa e del mondo: azienda pubblica italiana, già di proprietà dell’IRI, è oggi controllata da Fintecna, finanziaria del Ministero dell’Economia. Gira e rigira, il nostro Stato come la nostra economia, riporta sempre al punto di partenza con gli stessi personaggi e gli intrecci/interessi di sempre. E visto e considerato i tempi che corrono, Giuseppe Bono, amministratore delegato di Fincantieri, ha voluto mettere le cose in chiaro: “al momento non abbiamo problemi”. Ma quando lo sguardo si sposta sul futuro, l’avvertimento è fin troppo esplicito: “Andando avanti così con l’Ilva, anche per noi sarà un problema. E allora saremo costretti a comprare da un’altra parte”. La minaccia non poteva essere più chiara. A margine del salone europeo su Ricerca e Innovazione, in corso a Trieste, il leader del colosso cantieristico italiano lancia un allarme che si estende all’intera filiera produttiva italiana. “Comprando acciaio da un’altra parte, ci sarà meno produzione e meno lavoro per tutti”, ha dichiarato Bono. Il quale, pur non vivendo a Taranto, riesce nell’impresa di spiegare a tutti qual è il punto centrale della vicenda Ilva: “Il problema non è tra il lavoro e l’ambiente. Ma il problema è che la salute senza i soldi per mangiare non c’è. Il lavoro allora bisogna farlo, non si può vivere senza lavoro e allora cerchiamo di farlo bene”. Ragionamento logico-economico davvero arguto.
Federacciai: l’Ilva è fondamentale
Ai piani alti del mondo siderurgico, lo scenario futuro della siderurgia italiana lo hanno ben chiaro: i numeri attuali sono ancora da primato in Europa, ma la prospettiva è quella di sparire dalla scena, cancellando quasi del tutto la produzione e delegando ad altri Paesi, Asia in testa, il compito di rifornire le aziende italiane. L’amministratore delegato della Duferco e presidente dei produttori e dei commercianti italiani di Federacciai, Gozzi, sciorina i numeri che oramai tutti conoscono e che abbiamo pubblicato durante il nostro viaggio nell’acciaio italiano: “lo scorso anno l’Ilva ha prodotto 8 milioni di tonnellate di prodotti finito lunghi, 7,2 di coils e 0,8 di lamiere. Di quegli otto milioni, 5 sono stati assorbiti dal mercato italiano e sono finiti nella filiera delle eccellenze di questo Paese, come l’auto e la cantieristica ad esempio. Se Taranto si bloccasse, le aziende si troverebbero con cinque milioni di tonnellate da cercare altrove”. Lo stop definitivo a Taranto imporrebbe il riassetto del gruppo in Italia, che si ancorerebbe ancor di più alle banchine di Genova, ma imporrebbe l’acquisto all’estero delle bramme. Gozzi, a differenza di Bono e del presidente del Cda Ilva Bruno ferrante, va dritto al punto: “Non giriamoci troppo intorno: se a Riva fanno chiudere l’altoforno 5, per Taranto è finita. Ma lo sarebbe anche per l’Italia. Taranto produce bramme, ma se si ferma, il mercato italiano va a cercarle da un’altra parte”. Federacciai, così come il Governo, il ministro dell’Ambiente, i sindacati e le nostre istituzioni (con parte del mondo ambientalista), confida fortemente nella nuova AIA che sarà rilasciata all’Ilva nel mese di ottobre. Perché credono, a torto, che “l’autorizzazione per l’apertura e la chiusura di Taranto la decide il governo. Questo è l’impianto più all’avanguardia d’Europa”. Al di là dell’ultima battuta che ricalca lo spot sposato in pieno da sindacati e istituzioni nello scorso inverno quando, prima della pubblicazione delle perizie parlavano dell’Ilva come una fabbrica “modello europeo”, sull’AIA sbagliano di grosso. Il buon Gozzi preferisce sorvolare sul problema epidemiologico, perché “questo non è corretto dal punto di vista della legge. Una fabbrica è tenuta a rispettare dei precisi vincoli ambientali imposti, questi sì, da una legge. Se Taranto non lo facesse sarebbe giusto, doveroso, sanzionarla, ma se lo fa allora la valutazione dovrebbe essere differente”: come a dire che se l’Ilva dovesse rientrare in tutti i valori imposti dalla legge, tutto sarebbe “legale”. Anche continuare ad inquinare, ammalare e uccidere.
Taranto e Genova: due storie parallele
“Il giorno dopo lo spegnimento di tutti i forni della cokeria – ricorda Valerio – l’inquinamento dell’aria, in particolare il benzene e il benzo(a)pirene, crollò a livelli ampiamente al disotto degli obiettivi di qualità e così continua ad essere, anche a pochi metri dalla strada lungo la quale continuano a passare i 30.000 automezzi che, nel 2002, erano già in gran parte catalizzati”. Qui a Taranto invece, la posizione è leggermente diversa: la tesi difensiva è da un lato che il dramma sanitario ed ambientale di oggi è il dazio da pagare per la produzione del siderurgico ai tempi dell’Italsider pubblico; dall’altro, che i periti hanno utilizzato come parametri, standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in contrasto con quelli indicati dalla legge italiana. Ma al di là di queste quisquiglie legali (è bene ricordare che in sede di incidente probatorio l’Ilva non ha presentato alcuna memoria difensiva), ciò che conta è la sostanza. Infatti, i periti che hanno redatto le perizie chimico-epidemiologica, hanno utilizzato la stessa strategia investigativa usata a Genova: “per sfortuna degli inquinatori – il chimico Valerio – anche gli inquinanti sono dotati di impronte digitali chimiche, le composizioni relative di famiglie chimiche (composti organici volatili, diossine, policiclici aromatici, metalli pesanti) che sono diverse e, spesso, caratteristiche delle fonti che le hanno prodotte. Grazie ad accurate analisi chimiche e a sofisticati algoritmi è possibile attribuire ad ogni specifica fonte inquinante il proprio specifico peso sull’inquinamento trovato in un determinato punto del territorio in esame. A questo punto entrano in gioco gli epidemiologi che, in base alla concentrazione a cui è esposta la popolazione, stima il danno sanitario che questa esposizione provoca”.
Taranto e Genova, dunque, hanno molto in comune: anche la tecnologia delle cokerie risalente agli anni ’50, per questo impossibilitate a rispettare i limiti di legge e almeno dieci volte più inquinanti delle moderne cokerie che applicano la migliore tecnologia disponibile: difficile ipotizzare che dall’ingegnere dell’acciaio Emilio Riva all’ultimo dei sindacalisti, passando per istituzioni e organi di controllo, tutto questo non si sapesse. Semplicemente si è acconsentito a che un’azienda producesse per il “bene” nazionale, permettendole di inquinare e di sacrificare sull’altare del dio profitto, la salute di migliaia di lavoratori e cittadini innocenti. Ma è bene sottolineare come anche qualora l’Ilva dovesse dotarsi delle nuove cokerie, varrebbe sempre la stessa regola basata sul principio di precauzione: ovvero, come ricorda Valerio, “costruire questi impianti ad almeno due chilometri di distanza da zone abitate e da usi del territorio sensibili, quali produzione agricola, allevamenti animali, allevamenti di molluschi, usi presenti a Taranto e già pesantemente penalizzati”.
Il problema, che negli ultimi mesi abbiamo più volte sottolineato, è che l’Ilva non si può spostare. Né si può immaginare di dislocare altrove l’intera area a caldo, cuore pulsante del ciclo integrale per la produzione dell’acciaio. Il futuro, dunque, è abbastanza chiaro: o il governo arriva allo scontro con la magistratura tarantina sino a rivolgersi alla Corte Costituzionale, o il Gruppo Riva sarà costretto a rinunciare allo stabilimento di Taranto. Risanare l’Ilva, potrebbe costare molto più dei 4 miliardi paventati dai custodi giudiziari. Per farlo, ci vorranno anni, non di certo pochi mesi. Il tutto, con l’impossibilità di continuare a produrre, vista la non facoltà d’uso degli impianti per tale scopo. Certo, il buon Emilio proverà ancora una volta a forzare la mano: ma difficilmente gli “amici” riusciranno a salvarlo questa volta. L’acciaio italiano è in crisi, non da oggi e non per colpa della magistratura. Ma per via di scelte scellerate, di connivenze e omissioni di decenni. Il tempo è scaduto: si è fuori tempo massimo. Per questo il futuro, è in mano ai cittadini: bisogna solo avere il coraggio di andarselo a prendere.
Gianmario Leone (dal TarantoOggi dell’1 ottobre 2012)
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