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L’Ilva, l’Afo 5 e il buon Ferrante

TARANTO – “La richiesta dell’Ilva è sconcertante”: potrebbe bastare questa frase scritta dal GIP Patrizia Todisco nel decreto con cui rigetta il piano proposto dall’Ilva e l’istanza ad esso legata della richiesta di una minima capacità produttiva per sostenerlo, per comprendere di cosa stiamo parlando. “E’ inaccettabile” ha scritto il gip, il ragionamento portato avanti dall’Ilva che “ha chiesto l’autorizzazione all’attività produttiva, non quantitativamente precisata, finalizzata sostanzialmente alla sostenibilità e alla realizzazione del risanamento, come se ci fosse una inesigibilità economica”. La minaccia velata avanzata dall’azienda dunque, non ha colto nel segno.

Perché non è credibile per nessuno, meno che mai per un magistrato, che il Gruppo Riva che per anni ha fatturato miliardi di euro, oggi sostenga la tesi che per portare avanti un piano investimenti di 400 milioni sia assolutamente necessario continuare a produrre, come se si trattasse di una copertura o garanzia finanziaria legata alla reale volontà dell’azienda. Per capire ancora meglio la situazione attuale, riportiamo anche le conclusioni a cui arriva il GIP a due mesi esatti dall’ordinanza di sequestro preventivo degli impianti: “non c’è spazio dunque per proposte al ribasso da parte dell’Ilva circa gli interventi da svolgere e le somme da impegnare. I beni in gioco, salute, vita e ambiente e anche il diritto a un lavoro dignitoso ma non pregiudizievole per la salute di alcun essere umano, lavoratore compreso, non ammettono mercanteggiamento”.

Eppure, al di là del ponte di pietra, nel territorio dove sorge l’impero dell’ingegnere dell’acciaio, si continua a far finta di niente. Anzi: ci si meraviglia addirittura per le parole usate dal GIP nel decreto. La parola, ovviamente, spetta al presidente del Cda, Bruno Ferrante. Che recita il solito copione, con il primo atto che prevede un “ingenuo” stupore per l’ennesima decisione presa dalla magistratura che, non si sa per quale motivo, dovrebbe fidarsi ciecamente delle buone intenzioni dell’azienda. “Il nostro programma di interventi era serio e responsabile. E’ stato giudicato, viceversa, sconcertante il che mi sorprende: lo dico sinceramente”. Il secondo atto invece, prevede una sorta di rimprovero alla magistratura per non aver “capito” come il piano di interventi proposto dall’Ilva, fosse soltanto l’inizio di un “mastodontico” crono programma che il Gruppo Riva aveva in mente di portare avanti nei prossimi mesi. Ma si parla sempre di buone intenzioni, visto che di scritto, come sempre, non c’è nulla.

“Mi sorprende – ha aggiunto Ferrante – che in un atto di giustizia si senta questa parola, sconcertante, davanti ad un impegno veramente serio da parte nostra. Io ripeto che quelli erano dei primissimi interventi, non era il piano definitivo. Ed erano interventi che in grande misura coincidevano con quello che ci chiedeva la stessa autorità giudiziaria e i custodi”. Strano davvero: perché i custodi, nei giorni scorsi, avevano giudicato gli interventi proposti dell’azienda “assolutamente inadeguati per fermare le emissioni inquinanti dagli impianti”. Non solo. Perché il GIP condivide quanto evidenziato dalla Procura nel suo parere, dove “con amarezza” si rileva che l’Ilva si impegna solo adesso quegli interventi e quei i lavori, “comunque non risolutivi”, che erano già stati previsti da atti di intesa stipulati alcuni anni fa tra l’azienda, le istituzioni e i sindacati, “evidentemente mai realizzati”. Atti d’intesa che la Procura e il Gip avevano già definito “una colossale presa in giro” ed un “sistema ben rodato”.

Ma è il terzo atto quello che ci interessa maggiormente. Perché Ferrante, che prima di tornare in azienda ha partecipato ad un incontro con Confindustria e i sindacati metalmeccanici nella sede tarantina dell’organizzazione degli imprenditori, al suo arrivo davanti alla direzione dove é stato accolto da un applauso da parte di alcuni dipendenti quasi come fosse un salvatore della patria, un martire, è tornato ad affondare il dito nella piaga dei lavoratori. Brandendo la spada del ricatto occupazionale, ancora una volta. “Avevamo previsto il fermo dell’altoforno 1 senza ripercussioni sui livelli occupazionali. Naturalmente se ci verrà chiesto di intervenire sull’altoforno 5, lo scenario cambierà completamente, non soltanto per noi”. Primo, la richiesta di cui parla Ferrante è un provvedimento dei custodi al quale non si può rispondere di no. Secondo, l’intervento è stato già consegnato all’Ilva giorni addietro: peccato però che lo stesso Ferrante non l’abbia firmato, pur essendo un suo preciso compito, visto il ruolo di custode amministrativo. Terzo, si continua a far finta di non capire.

La facoltà d’uso, anche minima, a tutt’oggi non c’é. E il riferimento all’AFO 5, non è casuale. E’ l’altoforno più grande d’Europa, nonché il più produttivo per l’Ilva. Peraltro, casomai Ferrante l’avesse dimenticato, è anch’esso sotto sequestro. Ma tant’è. Lo scontro, comunque, è soltanto rimandato. Perché al di là dei vari ricorsi al Riesame che l’azienda e la Procura potranno fare, lo scenario che va delineandosi, è ben altro. Il ministro dell’Ambiente Clini infatti, a breve concederà la nuova AIA all’azienda: lo stesso ieri ha infatti commentato – nel question time parlamentare – gli sviluppi della vicenda Ilva. “Compete al ministro dell’Ambiente, in base alla legge italiana in applicazione della direttiva europea, l’AIA che autorizza l’esercizio degli impianti industriali nel rispetto delle norme per la tutela dell’ambiente e della salute”. Ma il rischio di uno scontro istituzionale tra governo e magistratura tarantina, resta altissimo.

“Mi auguro – ha specificato Clini – che la decisione del Gip non interferisca con la procedura prevista dalla legge italiana”. Il che, in parole povere, vorrà dire arrivare direttamente alla Corte Costituzionale: che probabilmente darà ragione al governo. Ma il processo andrà avanti. E soltanto i sindacati, le istituzioni e il ministro Clini possono davvero credere che l’Ilva seguirà per filo e per segno le prescrizioni della nuova autorizzazione, che per i nostri prodi dovrà avvenire in tempi certi: al massimo in quattro anni. Giusto il tempo per consentire a Riva di lasciare Taranto, chiudendo di sua sponte o vendendo l’Ilva a qualche gruppo estero. Perché signori, questo è il futuro che ci attende. Tutto il resto, appunto, assume i contorni di un paradosso sconcertante. Di una colossale presa in giro, l’ennesima, ai danni della nostra città. Siamo ancora in tempo per prendere in mano il futuro della nostra città e disegnarlo in maniera del tutto differente rispetto alla grande industria. Dobbiamo solo avere il coraggio di sognarlo. Osando, se necessario, anche l’impossibile.

SINDACATI E OPERAI, TUTTI CONTRO TUTTI

Fiamme, fuoco, tuoni e fulmini. Son quelli che arrivano direttamente da dentro l’Ilva, dove l’atteggiamento silenzio dell’azienda sta letteralmente spaccando il fronte degli operai, dopo aver ottenuto lo stesso risultato con i sindacati metalmeccanici. Con Fim Cisl e Uilm Uil che subito dopo aver appreso le decisioni del GIP, hanno proclamato per le giornate di oggi e domani scioperi tra sei e otto ore, a seconda dei turni, con manifestazioni esterne al siderurgico, “alla luce del forte clima di tensione sviluppatosi nelle ultime ore tra i dipendenti dell’Ilva, che vedono a serio rischio la tutela del proprio posto di lavoro”. Lo sciopero sarà scandito in questo modo: 1° turno e normalisti: dalle 9,00 fino a fine turno; 2° turno: dalle 15,00 alle 23,00; 3° turno: dalle 23,00 alle 7,00. La Fiom Cgil, invece, resta silente. Ovviamente, l’obiettivo non è certo la magistratura. Ma quello di voler condurre tutti al buon senso, “cercando di trovare un giusto equilibrio che miri al concetto di eco-compatibilità”: perché “risanare l’Ilva senza fermare la produzione non è impossibile; arrestare la produzione vuol dire spegnere le speranze e il futuro dei lavoratori”.

Il vero obiettivo, del resto, è lo stesso dell’azienda: impedire il blocco degli altiforni. Che viene visto come il primo passo per la morte del siderurgico tarantino. Sarà. Eppure, quando lunedì 9 marzo 2009 l’Ilva spense l’acciaieria 2 a causa della grave crisi economica allora agli arbori, la preoccupazione non era la stessa. Pochi giorni dopo, l’azienda cambiò idea: riapertura dell’acciaieria 2, con conseguente fermo dell’acciaieria 1: ancora una volta, nessuno gridò allo scandalo. L’altoforno 2 fermato per la crisi, venne riacceso soltanto a settembre del 2009. Il 1 gennaio 2010, ad un anno esatto dalla sua fermata, veniva riattivato l’altoforno 1 (AFO 1): mentre l’altoforno 4, che è stato spento addirittura per tre lunghi anni, venne riacceso soltanto nell’aprile 2011. Allora, dov’è la verità? Forse nel fatto che all’epoca, la magistratura non era affatto un pericolo. E che azienda, istituzioni e sindacati vivevano felici all’ombra degli atti d’intesa e delle leggi regionali, credendo che tanto bastasse a coprire e celare ogni inganno.

La storia, per fortuna, è andata diversamente. E dice chiaramente che oggi i sindacati non hanno più la forza, se mai l’hanno avuta, di imporre all’azienda investimenti di entità maggiore rispetto al piano di 400 milioni bocciato dalla magistratura. Peggio ancora fa Confindustria Taranto, che si lancia in un commovente appello a difesa dell’azienda: “l’Ilva rappresenta una parte fondamentale del tessuto produttivo nazionale, che ha preso con coraggio l’impegno ad investire una delle somme più consistenti mai messe in campo da un azienda privata per migliorare la compatibilità ambientale senza il contributo di risorse pubbliche.

L’azienda si è detta inoltre disponibile ad anticipare di ben quattro anni l’attuazione delle migliori tecnologie disponibili rispetto a tutte le altre siderurgie europee. Un impegno preso davanti ai cittadini di Taranto, ai lavoratori, alle istituzioni”. Se non fosse che i vertici di Confindustria e parte dei componenti sono legati economicamente a doppio filo con la produzione dell’acciaio, c’era seriamente di che preoccuparsi. Senza aggettivi invece, l’atteggiamento delle nostre istituzioni: Comune e Provincia si sono chiusi in un silenzio assordante, che descrive appieno la totale inettitudine dei nostri politici a ricoprire il ruolo a cui sono chiamati. Incapaci di difendere un intero territorio, si sono ritirati dal campo di battaglia prima ancora che suonassero le trombe.

Tornando all’interno del siderurgico, dopo che in quattordici hanno passato la notte sulla passerella dell’altoforno cinque, fermi a 60 metri di altezza, nella mattinata di ieri altri nove operai sono saliti sul camino E312 dell’area agglomerato, dove si sono incatenati esponendo tre striscioni di protesta. Ed erano più di seicento i lavoratori che ieri mattina hanno presidiato l’ingresso della direzione dove è poi nata un’acerrima discussione tra due gruppetti di lavoratori, alcuni dei quali vogliono difendere con ogni mezzo la fabbrica e il posto di lavoro; mentre altri sottolineavano di avere parenti che si sono ammalati di tumore per l’inquinamento, chiedendo reali interventi di ambientalizzazione, anche a costo di fermare gli impianti. Gli operai saliti sul camino E312, hanno issato tre striscioni con le scritte “la nostra salute è la vostra salute”, “Noi strumentalizzati da salute e lavoro, voi da chi?” e “Noi per ambiente salute e lavoro”. Peccato che fossero gli stessi striscioni realizzati dall’azienda in occasione della marcia degli ottomila lo scorso 30 marzo.

Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 27 settembre 2012)

 

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