Ovviamente, nel gergo industriale italiano, il “cuore” è sinonimo d’investimenti. Eppure, gli operai raccontano un’altra storia. Ad esempio che hanno utilizzato lo stesso “sbozzo”, un grosso utensile per imprime la giusta forma ai laminati, dal lontano 1931. Cambiarlo sarebbe costato 3 milioni di euro, ma l’azienda ha sempre “declinato”. Strano, vero? La storia della siderurgia italiana, esempio classico di un’economia alla deriva, si ripete uguale un po’ ovunque. Sono 119 i licenziati, per ora: eppure lo scorso anno venne firmato un accordo di 10 milioni per l’avvio della procedura di cassa integrazione per ristrutturazione, mai rispettato. Qualcuno rivede la storia degli atti d’intesa firmati da Ilva, istituzioni e sindacati dal 2003 in poi e mai rispettati? “Con gli investimenti giusti avremmo evitato la perdita di numerose commesse”, denunciano i sindacati. “Avremmo ottenuto laminati dalla forma perfetta senza bisogno di lunghe fermate e rifiniture nel ciclo a freddo”.
Se vogliamo, a Marghera stanno messi peggio rispetto a noi: dal 1989 non si fanno investimenti. Le condizioni di igiene e di sicurezza sono insufficienti, vetri rotti alle finestre, assenza di porte, compromissione degli impianti di aerazione e condizioni climatiche avverse. L’unico “vero” investimento è datato 2007: 1,6 milioni di euro per comprare la raddrizzatrice, attrezzo già presente in azienda, inutile ai fini della produzione perché la commessa per cui fu acquistata venne persa poco dopo. Da noi, a quanto dicono, hanno investito oltre 1 miliardo di euro per “ambientalizzare” lo stabilimento, ben 4 in totale in 17 anni di attività. Eppure, il GIP Todisco si è vista “costretta” a sequestrare sei aree del siderurgico tarantino, cuore pulsante della produzione dell’acciaio del Gruppo Riva. Con i custodi giudiziari che hanno notificato all’azienda una serie di provvedimenti per intervenire immediatamente su impianti che l’azienda non ha ritenuto opportuno ammodernare. Peggio ancora la situazione nel Valdarno (Arezzo), dove dal 1872 hanno operato le “mitiche” Ferriere.
Alle finestre dello stabilimento, gli 80 operai superstiti di quelle che nel 2003 erano diventate le acciaierie AFV Beltrame, hanno appeso un eloquente striscione: “Dopo 140 anni, la nostra storia finisce qui. Grazie AFV”. E pensare che la fabbrica di San Giovanni Valdarno era la sola del gruppo, leader europeo nel settore dei laminati lunghi, capace di fare una produzione di nicchia – i profilati in acciaio – che assicurava dei guadagni o, quanto meno, il pareggio di bilancio. Una produzione ridotta nelle dimensioni, il 5% di quella complessiva della Beltrame: ma di altissima qualità. Il Cda della Beltrame, proprio in queste ore, ha deciso per la chiusura dello stabilimento. Unica concessione da parte dell’azienda, sospendere la mobilità e attivare una CIG straordinaria biennale per cessazione di attività. Qualcosa di molto simile a quanto pensato per San Giovanni, dove la cassa per cessazione è diventata CIG per crisi.
La Beltrame ha provato anche a “salvarsi” con la costituzione di una nuova società per avere i benefici di legge e abbattere i costi del lavoro: ma il governo ha bocciato la richiesta. Nel mentre, l’azienda sta anche pensando di esportare alcuni profili della produzione nello stabilimento torinese del gruppo. L’acciaio italiano è in crisi. Questo lo sanno molto bene al ministero dello Sviluppo economico, lo sa il governo, Confindustria, Federacciai, i sindacati e i grandi gruppi industriali. Ecco perché l’azione della magistratura tarantina nei confronti dell’Ilva Spa, che sui prodotti piani occupa l’80% del mercato italiano (il 40% in complesso sui 28,5 milioni di tonnellate di produzione di acciaio italiana), con l’industria nazionale che si approvvigiona con 5 degli 8 milioni di tonnellate prodotte dall’Ilva, ovvero il 40-45% del fabbisogno della filiera industriale trasformatrice, è mal vista dall’intero mondo economico italiano.
Lo sanno, ma non lo dicono. O non vogliono ammetterlo. Né sanno come tirarsi fuori dalle sabbie mobili di un mercato asfissiato, dove resiste soltanto chi è intervenuto per tempo sulla produzione e sull’impatto ambientale. Per questo sono disposti a passare sopra alle malattie, alle morti, ad un inquinamento devastante, sino ad arrivare ad uno scontro frontale con la magistratura. Perché vogliono salvarsi ancora una volta.A discapito di tutto e tutti. Ma almeno la Beltrame dimostra di essere più sincera. “L’interruzione della produzione è irreversibile – scrive l’azienda in una nota -. Acciaierie Beltrame considera impossibile l’ottenimento del pareggio di bilancio in una situazione congiunturale che, per il settore dell’acciaio, non accenna a migliorare. Il risultato di questa situazione, economicamente insostenibile, è che solo nel primo semestre 2012, l’impianto di Porto Marghera ha registrato un ulteriore flessione del 20-30% nel settore “movimento terra” con un conto economico che ha consuntivato perdite per 3 milioni di euro”. La Beltrame ha chiuso i laminatoi in Belgio e Lussemburgo della controllata Lme (Laminés Marchands Européens), concentrandosi invece sull’ottimizzazione dei siti francesi in cui vi erano già sia l’acciaieria che due laminatoi. Qui da noi, in soccorso del Gruppo Riva, è schierato l’intero sistema economico italiano, governo di “tecnici” compreso. Ma non è detto che alla fine la spuntino loro ancora una volta. Non è affatto detto.
G. Leone (dal TarantoOggi del 24 settembre 2012)
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