Il primo passo indietro è rappresentato dalla resistenza della proprietà nel recepire gli interventi individuati dai custodi come gli unici in grado di permettere il venir meno del dolo che – vogliamo ricordare, riguarda reati come il disastro ambientale (non propriamente cosette di second’ordine). Salta all’occhio infatti che, a titolo esemplificativo, tra le altre cose i custodi individuano la fermata per i rifacimenti degli altiforni 1 e 5, mentre la proprietà risponde inserendo nel suo piano gli AFO 1 e 2.
Il secondo passo indietro è rappresentato dal numero di zeri della cifra stanziata e in cui far rientrare gli interventi di miglioramento delle “performances ambientali” dello stabilimento. Lo spot Ilva fatto passare in TV qualche mese fa recitava: “hai mai misurato il nostro impegno?”; ebbene, la mole degli interventi da attuare per rimuovere gli elementi di pericolosità delle aree sottoposte a sequestro è tale che anche i semplici operai hanno chiaro che questo impegno, dal quale discende direttamente il loro futuro occupazionale, è largamente insufficiente. Non è un caso infatti che i tentativi di “mobilitazione” fatti partire dall’azienda attraverso la linea del comando abbiano sempre meno successo.
Il terzo passo indietro è la cosiddetta “facoltà d’uso”. I custodi hanno individuato, all’interno delle aree sottoposte a sequestro, due tipologie di interventi da attuare: il fermo col susseguente rifacimento e il cosiddetto “adeguamento”. Senza volere in nessun modo “interpretare” le decisioni dei custodi e della Procura possiamo dire che le riduzioni delle emissioni inquinanti nelle varie fasi della produzione possono essere raggiunte temporaneamente anche attraverso ottimizzazioni mirate delle pratiche operative e una riduzione e stabilizzazione dei ritmi produttivi, nel mentre che gli interventi strutturali di adeguamento vengono portati a termine. I tentativi degli avvocati dell’azienda di dare una lettura diversa del pronunciamento del Tribunale del Riesame è insieme forzosa e preoccupante.
Insomma, la proprietà e lo stesso Presidente Ferrante – che pure aveva dichiarato di voler agire in discontinuità con quanto fatto dalla dirigenza ILVA nel recente passato – continuano a voler ignorare la gravità della situazione. Di questo passo tale atteggiamento potrebbe provocare conseguenze irreparabili per la vita dello stabilimento e per la sicurezza occupazionale dei suoi addetti.
Rifondazione Comunista da tempo ribadisce che un altro modo di fare acciaio è possibile. Lo dimostrano importanti stabilimenti sparsi per l’Europa: si pensi al centro Thyssen Krupp di Duisburg (Germania), dove agli inizi degli anni 2000 sono state investite somme ingenti per ammodernare le parti più inquinanti del ciclo. I risultati non si sono fatti attendere: p. es., a seguito della sostituzione delle cokerie con modelli di nuova generazione le emissioni del cancerogeno più pericoloso, il benzo(a)pyrene, sono crollate ben al di sotto della soglia d’allarme di 1 nanogrammo/m³. In quello stesso stabilimento i lavoratori non sono costretti a respirare fumi tossici durante l’orario di lavoro.
Ma per ottenere risultati analoghi anche all’ILVA sono necessarie cifre ben superiori ai 400 milioni di Euro (in quattro anni) sventolati dal Presidente Ferrante! Solo per la costruzione delle nuove batterie di Duisburg la Thyssen Krupp ha speso, fra 2000 e 2003, 800 milioni di Euro!
Questo importante investimento è stato reso possibile anche dal fatto che nelle grandi fabbriche tedesche i rapporti fra azienda e lavoratori sono improntati al coinvolgimento di questi ultimi nelle decisioni strategiche.
Dunque la proprietà e la dirigenza ILVA farebbero bene a mutare complessivamente il loro atteggiamento: servono più risorse, un piano di investimenti che affronti i reali problemi ambientali dello stabilimento e un modo diverso di rapportarsi ai lavoratori. Questi non possono essere considerati ancora come oggetti da manovrare dentro i cancelli per ottenere i massimi profitti e fuori dai cancelli per fermare il necessario processo di ambientalizzazione.
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