L’auto blu di Clini e le strade (di Taranto) mai battute
Venerdì 14 settembre. Per Taranto sarebbe un giorno come tanti se non fosse per quell’auto blu che attraversa la città, diretta verso la Prefettura. E’ quella la sede degli incontri istituzionali, dove si parla del futuro degli “altri”. In questo caso, gli “altri” sono innanzitutto gli abitanti del quartiere Tamburi (quello a ridosso delle ciminiere Ilva), catapultati all’improvviso sulle pagine dei giornali nazionali e stranieri. Gli “altri” sono anche gli operai dello stabilimento, in ansia per le loro prospettive occupazionali, e coloro che in quella fabbrica non ci hanno mai lavorato, eppure si ammalano e muoiono.
A bordo dell’auto blu c’è il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, colui che non farebbe mai crescere il nipote nel quartiere impolverato. Il centro di Taranto è presidiato dalle forze dell’ordine, off limits per i cittadini. Il percorso è punteggiato da decine di macchine dei Vigili Urbani, in una giornata che non prevede strappi alla regola e improvvisazioni. Clini non chiederà mai al suo autista di andare in via Orsini per raggiungere la piazzetta in cui è esposta la targa voluta da Peppino Corisi prima di morire. “Ennesimo decesso per neoplasia polmonare – 8 marzo 2012”. È questo il suo ultimo e doloroso messaggio, impresso sul balcone di casa.
Peppino è morto nello stesso giorno in cui si celebra la festa delle donne. E sono proprio tre donne, la moglie e le due figlie, a testimoniare il suo infaticabile impegno per una città più sana e il drammatico impatto con la malattia. «Aveva una tosse molto forte, gli mancava il respiro – racconta la moglie Graziella, 64 anni – dopo i controlli (raggi e tac) è stato ricoverato d’urgenza. La diagnosi equivaleva ad una sentenza senza appello: cancro maligno ai polmoni».
Peppino, per anni consigliere circoscrizionale, è stato strappato alla vita a 64 anni. Per trent’anni ha lavorato nell’area a caldo dell’Ilva. Ha conosciuto l’inferno e ne ha preso le distanze. E’ stato lui a volere, insieme ad altri cittadini dei Tamburi, una targa affissa nel 2001, anch’essa deteriorata. “Nei giorni di vento nord–nord/ovest, veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale Ilva”. La firma è dei cittadini delle vie De Vincentis, Lisippo, Trojlo, Savino, i quali “maledicono coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”. Parole incise e soffocate, come l’urlo disperato di chi non ha più voce.
Il messaggio lasciato sul balcone di casa Corisi è nato da una conversazione con gli amici più cari, qualche giorno prima di morire: «Io non ce la faccio – ha confidato Peppino, nonostante la sua indole da combattente – affido a voi la mia denuncia contro l’inquinamento, nel rispetto di tutti i cittadini che si ammalano». Ora il testimone è passato agli altri componenti della famiglia. «Era mio padre quello che si esponeva, noi restavamo sempre defilate – racconta con pudore Sabrina, 37 anni – se oggi parliamo coi giornalisti non è per smania di protagonismo. E’ solo perché avvertiamo un dovere morale, in primis verso noi stesse, poi verso la cittadinanza».
L’auto blu del ministro Clini non imboccherà nemmeno la strada che porta al cimitero San Brunone, dove le tombe e le cappelle hanno lo stesso, inconfondibile, colore rossastro. Qui l’odore acre che prende alla gola, proveniente dall’Ilva, si fa ancora più forte e pungente. Polveri e veleni aggrediscono occhi e gola. Provocano lacrimazione, tolgono il respiro, strozzano. Ma c’è qualcosa, qui, che appare ancora più inquietante: il frastuono metallico proveniente dagli impianti Ilva ancora in marcia. Un’arida ninna nanna che sovrasta il silenzio dei viali. L’ultima beffa per tutti coloro che sono stati condannati al sonno eterno proprio dai veleni industriali.
# Frammento n. 1- Alessandra Congedo