L’acciaio ci serve. E ci piace – Ci salveremo solo con un cambio radicale di mentalità
TARANTO – Se ci osservassero da un altro pianeta, chissà cosa penserebbero. Davvero strani questi umani che hanno scelto di sacrificare sull’altare del dio denaro tutto, pur di non mettere in discussione il loro sistema economico, che non si deve e non si può fermare. A qualunque costo. Anche sacrificando l’ambiente che li circonda: hanno avvelenato aria, terra e acqua; hanno ucciso migliaia di capi di bestiame e mandato al macero i prodotti del mare; hanno sacrificato la vita di migliaia di loro cari (uomini, donne e bambini, senza distinzione alcuna): ma perseverano nella loro follia. E chissà cosa penserebbero soprattutto di noi tarantini: ma come, per la prima volta hanno l’occasione unica e storica di voltare pagina, di scegliere un futuro diverso, di riprendersi quanto è stato loro tolto, di ottenere giustizia, di valorizzare per la prima volta le risorse storiche e naturali del territorio e invece che fanno? Restano immobili, lasciando tutto in mano alla magistratura e a tre custodi. Oppure latitano, dubitano, sono incerti, perplessi.
D’altronde, se l’Ilva chiude, che fine facciamo? Sì, va bene: c’è l’inquinamento di decenni con cui fare i conti. Ci sono i malati attuali e quelli futuri che verranno. E ci sono i morti, tanti. Troppi. E però. Come si fa senza l’Ilva? E senza l’acciaio? Ed allora, invece di fare fronte comune per disegnare un progetto di città e di economia realmente alternativo, si affidano alla buona sorte: che in questo caso coincide con l’azione della magistratura. Ma per non far vedere che proprio nulla stanno facendo, scelgono una strategia politica ben definita: il Gruppo Riva deve fare tutti gli investimenti che gli chiederà la Procura. Ma non dobbiamo essere noi a dirgli di andarsene: vuoi mettere? Alla fine rischiamo anche di prenderci la colpa di aver cacciato “l’ingegnere dell’acciaio”. Ed allora chiediamogli di produrre “acciaio pulito”. Perché se lo fanno altrove qui non è possibile? Osservazione giusta. Ma guai a dire a Riva, “vattene”. Rischiamo di fare il suo “gioco”. E poi che fai, diventi razzista? Vuoi che si produca l’acciaio dell’Ilva altrove e si ammalino e muoiano altri al posto nostro? E poi, se Riva vende, possiamo sempre nazionalizzarla di nuovo, no? Sarà.
Ma la verità, almeno nella pratica e nei numeri, è tutt’altra. Perché non si ha il coraggio di accettare un qualcosa che ogni giorno diventa sempre più chiaro: il sistema economico italiano, più che quello europeo, è miseramente fallito. Perché l’aver svenduto negli ultimi vent’anni le industrie di Stato ai privati, ci ha portato ai drammi di oggi. Dove non conviene investire, modernizzare gli impianti, mettersi al passo con gli altri paesi dell’Unione Europea che hanno agito per tempo. Ed allora le alternative sono due: o si continua così accontentandosi di qualche maquillage, oppure si chiude. Non riusciamo a vedere oltre. A scorgere l’alternativa. Non solo. Perché sappiamo anche fare di peggio. Di molto peggio. Vigliaccamente, facciamo finta di non accorgerci che anche noi, sotto sotto, difendiamo il nostro piccolo orticello.
Sposando un’ipocrisia senza precedenti. Perché qualcuno qui ci deve spiegare che differenza c’è tra un operaio Ilva, un mitilicoltore ed un allevatore: non sono per caso tutti e tre dei lavoratori? Non hanno tutti e tre il diritto al lavoro? Non andrebbero tutelati alla stessa maniera? La risposta è no. Per un semplice motivo: perché il loro lavoro sull’economia, che poi è la nostra “vita”, ha un peso completamente diverso. Perché all’Ilva si produce l’acciaio, che in un modo o nell’altro serve a tutti. Ma come? E la mitilicoltura tarantina famosa in tutto il mondo? E il latte, il formaggio? E la capre, le pecore, i mitili? I prodotti della terra e del mare, non contano? No, non contano. O almeno non qui, non su questa terra. Qui conta l’economia, bellezza. Che è una grande scatola cinese dove confluiscono un’infinità di interessi che non si devono toccare. Che gli allevatori e i mitilicoltori andassero altrove a produrre. Sono rimasti disoccupati? Hanno licenziato chi lavorava per loro? Non sono più liberi di pescare nel mare? Di coltivare sui loro terreni per un raggio di 20 km? Ci dispiace, moltissimo. Davvero. Ma vuoi mettere se chiude l’Ilva? 11.000 lavoratori diretti senza lavoro, più tutti quelli dell’indotto? Mai.
Anche perché se chiude il siderurgico tarantino, il “dramma” economico investirebbe l’Italia intera. A questo non pensi? Il mercato dell’acciaio sarebbe preda degli investitori stranieri. Non solo. Ma come farebbero tutte quelle azienda che si “cibano” dell’acciaio dell’Ilva? Parliamo di 10 milioni di tonnellate l’anno. Solo nell’ultimo anno 8 milioni di tonnellate di prodotti finiti piani. I clienti del Gruppo Riva si chiamano Fiat, Bmw, Peugeot, i principali tubisti italiani come Marcegaglia, Alfieri e Padana Tubi, le carpenterie metalliche, come Cimolai e il Gruppo Manni, imprese del settore elettrodomestici e caldaie, aziende del comparto costruzioni che operano nella realizzazioni di grandi infrastrutture. Poi c’è il commercio di prodotti piani, che compra lamiere e coils dall’Ilva per approvvigionare gli artigiani e le micro aziende: 1500 commercianti, metà dei quali tratta prodotti piani. Sui prodotti piani l’Ilva ha l’80% del mercato nostrano (il 40% in complesso sui 28,5 milioni di tonnellate di produzione di acciaio italiana).
L’industria nazionale si approvvigiona con 5 degli 8 milioni di tonnellate prodotte dall’Ilva, ovvero il 40-45% del fabbisogno della filiera industriale trasformatrice. Senza l’Ilva si dovrebbe importare dall’estero, con costi extra sulla logistica e di natura finanziaria: tra i 2 e i 5 miliardi di euro di spesa in più. E poi, se chiudi l’Ilva, in Italia non c’è nessuno che può farne le veci. Il Gruppo Arvedi, ad esempio, non ha la stessa capacità produttiva. Ma oltre confine, ci riuscirebbero eccome. C’è la ArcelorMittal, i danesi di Corus, ThyssenKrupp, i cinesi e i russi, che potrebbero tranquillamente occupare questa ampia fetta di mercato. E poi l’Ilva serve anche all’estero. Nell’ultimo anno il Gruppo Riva ha esportato 3 milioni di tonnellate (2,5 nella UE e mezzo milione nell’extra UE). Dunque, senza l’Ilva, non solo saremmo costretti ad importare, ma perderemmo terreno anche nelle esportazioni.
Il calcolo dettagliato è stato fatto nei giorni scorsi dal ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera e ripreso anche da “Repubblica economia”: “l’effetto complessivo di sostituzione sulla bilancia commerciale oscilla tra 3,7 e i 5,5 miliardi all’anno. A questi vanno aggiunti altri oneri legati all’importazione, che si muovono nella forbice tra i 750 milioni e 1,5 miliardi di euro. L’onere complessivo per la cassa integrazione, viene stimato in circa 330 milioni l’anno. Vanno considerati i costi legati ai minori introiti in termini di imposte ed altri oneri sociali, l’impatto sociale sul territorio pugliese per il fatto che migliaia di persone si troverebbero senza salario. Tutto sommato la cifra paventata è di circa 8 miliardi di euro l’anno”.
Calcoli, conti, numeri: cifre fredde che non tengono conto di nulla e di nessuno. Taranto può rinunciare al siderurgico solamente a fronte di un cambiamento radicale di mentalità. Oltre che di prospettive. Soltanto così si può immaginare un futuro diverso, anche economicamente. D’altronde, di tutti i miliardi sopra citati, Taranto ha mai visto un centesimo? Serviamo all’economia nazionale, a quella internazionale: oltre che ad arricchire il Gruppo Riva e tutti coloro i quali negli anni hanno fatto fortuna nell’indotto. Ma a che prezzo? Ma a noi chi pensa davvero? Nessuno. Davvero siamo disposti a rinunciare ancora una volta ai frutti della nostra terra? Ai nostri allevatori? Alle nostre campagne? Ai nostri mitilicoltori? Alle nostre cozze? Al Mar Piccolo? Davvero abbiamo così tanta paura del futuro, che siamo disposti a tenerci l’Ilva purché produca “acciaio pulito”? Che comunque inquinerebbe ancora, anche se in maniera limitata? E la nostra storia?
I nostri tesori che teniamo ben chiusi e nascosti? E l’immaginazione, la fantasia, la creatività? Possibile non siamo in grado di dire “basta” e voltare pagina? Sappiamo criticare la politica, i sindacati, i mass media, il mondo economico: ma non abbiamo il coraggio di guardare oltre. Di scegliere una vita migliore, diversa. Forse meno opulenta? Questo è da vedere e si deve dimostrare. Sicuramente più bella, più serena. Più pulita. E i nostri morti li abbiamo già dimenticati? E i nostri cari ammalati? Possibile che di fronte a tutto questo scegliamo ancora una volta il capitalismo, magari più buono perché un domani forse più pulito e “democratico”? Ma sarebbe comunque una scelta di sopravvivenza. Vivere, è un’altra cosa. “Grande è la confusione, sopra e sotto il cielo. Osare l’impossibile, osare. Osare e perdere. Grande è l’impossibile”: perché non provarci? Chi ce lo vieta?
Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 14 settembre 2012)