“L’Ilva non può avere l’Aia”, lo dicono Peacelink, Ail e Fondo Antidiossina

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La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. A pronunciare queste parole sugli impianti dell’Ilva di Cornigliano (Genova) dodici anni fa, era l’attuale ministro dell’ambiente Corrado Clini.

Riteniamo che la posizione espressa da Clini per l’Ilva di Genova dodici anni fa non possa non valere anche per l’Ilva di Taranto oggi, di fronte a evidenze chimiche ed epidemiologiche non dissimili da quelle che emersero nell’indagine della Procura della Repubblica di Genova.

Vogliamo evidenziare con chiarezza la posizione delle nostre associazioni (in vista dell’incontro di domani con il ministro dell’Ambiente Clini, ndr): gli impianti sotto sequestro non sono idonei a ricevere l’autorizzazione integrata ambientale.

I risultati delle indagini penali sono un dato da cui non si può prescindere, ed hanno reso necessario il sequestro di alcuni impianti proprio in quanto il loro esercizio (l’attività in concreto, non potenziale) era in grave violazione di norme penali, norme poste a protezione di beni fondamentali come la vita e la salute che nel caso dell’Ilva riguarda un numero enorme di persone.

Chi ha reso possibile quella attività è stato tra l’altro colpito da provvedimenti restrittivi della libertà personale. Non si può quindi autorizzare un qualunque soggetto alla prosecuzione di reati (il cui  accertamento con i poteri e le facoltà connesse è ovviamente riservato agli organi giurisdizionali).

Le perizie disposte dal Giudice per le Indagini Preliminari di Taranto hanno raffrontato le BAT – migliori tecnologie disponibili – alle caratteristiche degli impianti in uso, uno per uno, in tutte le fasi di processo; ne sono emerse criticità eccezionalmente pesanti che, valutate sotto il profilo degli effetti di carattere sanitario, non potevano che portare alla decisione dell’interruzione dell’esercizio.

Le motivazioni alla base della nostra posizione sono le motivazioni tecniche contenute nell’ordinanza del GIP.

Gli attuali impianti non possono funzionare non solo per la loro cattiva gestione e manutenzione, ma per le loro caratteristiche strutturali. Neppure un’ottima gestione e manutenzione consentirebbero di allinearsi alle emissioni minime consentite dalle migliori BAT.  Per evitare ogni equivoco, va detto che questi impianti, anche se sottoposti ad interventi di “revamping” non sono compatibili con la salute degli abitanti del vicino centro abitato (come dimostrato dalle perizie). Il “revamping tecnologico” è infatti un’operazione che sottopone a revisione e ristrutturazione gli impianti industriali allo scopo di allungare la loro vita utile, all’interno del processo produttivo.

Sin dal 1997 (con delibera del Consiglio dei Ministri dell’11 luglio 1997 e con DPR del 23 aprile 2008), Taranto è stata dichiarata area ad elevato rischio di crisi ambientale.

La Commissione IPPC (che istruisce l’AIA) sa che l’articolo 8 del d.l.vo 59/2005 in materia di rilascio dell’AIA prevede che in alcuni gravi casi, tenendo conto di tutte le emissioni coinvolte, è necessario adottare le migliori tecnologie in assoluto, imponendo la prescrizione cioè di “misure supplementari particolari più rigorose” rispetto al range di tecnologie e dei relativi risultati ottenibili, nel cui ambito le imprese possono normalmente scegliere (tecnologie “disponibili”).
Sugli attuali impianti siderurgici dell’area a caldo dell’Ilva, le tecnologie “migliori in assoluto“, quindi all’apice del range di possibilità, non sono implementabili.

Ci sono due i presupposti per applicare l’art. 8 (trasfuso totalmente nel d. l.vo 152/2006).

Il primo è la dichiarazione di Taranto come città a grave rischio ambientale.
Il secondo è la certificazione delle perizie commissionate dalla magistratura che attestano l’esistenza di un pericolo in atto, i cui effetti sono quantificati in 30 decessi annui dovuti alle emissioni dell’inquinamento industriale.  Ciò è emerso nell’incidente probatorio, in contraddittorio con i periti dell’Ilva, i quali non hanno portato alcuna argomentazione per confutare i contenuti della perizia epidemiologica. Pertanto le risultanze dell’incidente probaborio sono comprovate e sono ormai un dato acquisito.

Il silenzio su questa disposizione di legge è incomprensibile: se il caso dell’Ilva e la situazione creatasi attualmente a Taranto non sono quelli previsti dal citato art. 8 (e non ne integrano i presupposti per esigere nell’esercizio degli impianti le migliori tecnologie in assoluto), si attende di capire in quali altri casi – diversi e più gravi – ne sarebbe prevista l’applicazione.

Le nostre associazioni ritengono che azioni dirette ad autorizzare ad ogni costo l’esercizio degli impianti non porterebbero soltanto a un conflitto tra poteri o apparati dello Stato.
Il sistema penale, infatti, difende beni fondamentali da danni e da minacce in atto. Tutto l’ordinamento è diretto ad evitare il ripetersi di eventi dannosi e deve prevenirli. Nel caso dell’Ilva, l’esercizio di alcuni impianti ha determinato danni addirittura accertati in sentenze passate in giudicato. Chi adotta un provvedimento amministrativo come l’AIA non può quindi collaborare alla lesione di quei beni e valori, tutelati al massimo livello dall’ordinamento.
Non basterebbe certo autorizzare gli impianti in questione con un revamping condizionato da prescrizioni, dato che le perizie chieste dal GIP dimostrano che nessun revamping può allineare quegli impianti alle minori emissioni possibili, consentite dalle migliori BAT.

In ogni caso, in attesa di eventuali lavori di rifacimento ex novo degli impianti con le migliori tecnologie in assoluto, il processo produttivo attuale, altamente inquinante, non può essere autorizzato.

Nessuna deroga può essere concessa.

L’AIA infatti non può prevedere deroghe all’ordinanza del GIP dott.ssa Patrizia Todisco.
Permane pertanto il divieto di uso degli impianti a fini produttivi fino a che gli impianti non dovessero essere completamente rifatti rimuovendo il pericolo.
Nessun cronoprogramma che prefiguri prossime novità tecnologiche può prolungare la vita dell’attuale ciclo produttivo basato sulle attuali tecnologie inquinanti dell’area a caldo.  La produzione dell‘area a caldo attuale va comunque fermata perché – come documentato dall’ordinanza del GIP dott.ssa Patrizia Todisco – le attuali emissioni inquinanti in eccesso costituiscono un pericolo incombente sulla salute e sulla vita delle persone.

AIL – Associazione Italiana contro le Leucemie
Paola D’Andria

Fondo Antidiossina Taranto ONLUS
Fabio Matacchiera

PeaceLink
Alessandro Marescotti

In alto  una foto eloquente – scattata dal quartiere Paolo VI – che sarà consegnata domani al ministro Clini

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