Olio extravergine “made in Ilva”, sarà doc?
Solo chi è nato all’ombra di una ciminiera può comprendere, fino in fondo, tutti i molteplici risvolti della vicenda Ilva. Non è supponenza, ma reale convinzione. Un esempio: anche il tarantino più sprovveduto riesce a percepire dall’esterno, tramite l’olfatto, eventuali anomalie nei processi di produzione del siderurgico. D’altronde c’era un tempo, molto recente, in cui l’Ilva non si sforzava di comunicare con la città e così erano proprio gli abitanti, soprattutto quelli del vicino quartiere Tamburi, che percepivano, prima degli altri, i carichi di produzione dell’acciaio, allertandosi quando l’aria, già malsana, diventava irrespirabile. Non è solo questione di odori. Ma anche di colori.
I tarantini si sono assuefatti a non vedere più il cielo blu, con la perenne presenza della nube tossica, le acque limpide di una volta e si limitano ad osservare il rosso ferroso che copre cartelli stradali ed invade i balconi della povera gente che non può acquistare casa altrove. E poi ci sono i sapori. Quelli definitivamente persi, come le cozze del Mar Piccolo, fiore all’occhiello della terra che da due mari, se ne ritrova uno, fino a prove (epidemiologiche) contrarie. E quelli che fanno parte del siderurgico più grande d’Europa. Sono in molti ad apprezzare la cucina dell’azienda della famiglia Riva: “varia spesso e cucinano i piatti tarantini” dice AF, dipendente dell’acciaieria, in quella che sfocia in una banale conversazione sull’arte culinaria della mensa. Fino a quando AF la butta lì, come se fosse la cosa più normale di questo mondo; sembra una battuta ma non lo è.“Che poi a mensa usano solo l’extravergine di oliva che producono in stabilimento”.
Pare che nei dintorni dell’Ilva ci sia un’ampia area dove sono piantati degli ulivi secolari da cui vengono ricavate le olive per realizzare l’olio extravergine, utilizzato nelle cucine del siderurgico (almeno fino a poco tempo fa). Per la serie non si butta via nulla. La notizia, di nessuna rilevanza giuridica, alla luce del dettagliato rapporto epidemiologico presentato dalla procura, getta però delle domande inquietanti. Se sono state rinvenute tracce di diossina e Pcb in capi di bestiame nel raggio di quaranta kilometri, cosa dobbiamo immaginare di trovare nell’olio prodotto nei dintorni dello stabilimento? Difficile pensare che le polveri cancerogene non si possano posare sulle olive raccolte nei pressi del siderurgico. Così all’aria malsana, si aggiunge anche l’olio, usato per condire tutti i cibi.
E’ una questione di buon senso: nessuno può dire (fino a test chimici specifici) che ci sia una conseguenza nociva derivante dall’assunzione dell’olio extravergine dell’Ilva, ma, a naso, non sembra possedere i requisiti per ottenere una certificazione di qualità. Ciò che non sapremo mai è se quest’olio riuscirebbe a superare la prova suprema per un extravergine: quella del pane. Alzi la mano chi si sottoporrebbe volontariamente al rito sacro per i cultori di un alimento che è alla base della dieta mediterranea ed è linfa vitale per il martoriato sud. D’altronde gli stessi operai dell’Ilva, da Genova a Taranto, si affrettano a ripetere ai microfoni delle tv nazionali: “l’Ilva non è una fabbrica di cioccolato, anche se oramai pure quella inquina”. Quasi a voler rendere leciti i livelli che, dal provvedimento del Gip Todisco, sembra chiaro abbiano superato tutti i limiti del vivere civile. Ed allora una violazione del codice non scritto, quello del buon senso appunto, aggiunge solo un frammento al mosaico che si sta delineando dentro e fuori il tribunale.
Fabiana Di Cuia
27.08.2012
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