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Ilva, il Riesame conferma: sequestro senza facoltà d’uso

TARANTO – Più di qualcuno dovrà chiedere scusa al gip Patrizia Todisco, sottoposta ad attacchi volgari e insensati. Anche il Tribunale del Riesame ha confermato che non vi è alcuna facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva posti sotto sequestro (tra l’altro non sarebbe stata neanche richiesta dai legali dell’azienda). Le interpretazioni errate avanzate da molti sono state quindi clamorosamente smentite.

Le motivazioni  del Riesame sono state depositate questa mattina. In base alle notizie fornite dalle agenzie di stampa il provvedimento sarebbe composto da circa 120 pagine. In base a quanto riferito da fonti giudiziarie, il Riesame ha disposto che non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare senza specificare il percorso affidando ciò ai custodi incaricati dal gip. “La facoltà d’uso riguarda la bonifica, ma non la produzione”, ha specificato una fonte all’agenzia Reuters.

Passiamo all’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame.

PARCHI MINERALI – Si legge nel provvedimento: “In conclusione appare dimostrato che le attività svolte nell’area parchi generano emissioni nell’atmosfera non convogliate non adeguatamente quantificate dall’impresa contenenti sostanze inquinanti che si riversano principalmente nelle aree immediatamente adiacenti lo stabilimento investendo tra l’altro il popoloso quartiere Tamburi. L’Ilva non ha alcuna autorizzazione ad immettere all’esterno ingenti quantità di polveri dall’area parchi. Lo dimostra la precedente condanna confermata in Cassazione a carico di Riva Emilio e Capogrosso Luigi per il reato di cui all’art. 674 c.p. contestato per la medesima e pregressa condotta di sversamento delle polveri. Lo conferma l’assenza nel decreto Aia e in precedenza nella determinazione n. 363 del 18 novembre 2003 di alcun limite delle emissioni provenienti dall’area di “discarica, stoccaggio e ripresa materie prime” contenendo i predetti provvedimenti prescrizioni tese e prevenire e limitare le emissioni a carattere diffuso delle polveri all’esterno. Dall’area parchi, in conclusione, sono state emesse polveri che non dovevano fuoriuscire o che comunque non dovevano superare il limite normale di tollerabilità ex art. 844 c.c.”.

LE CONDIZIONI LAVORATIVE – “Le risultanze dell’indagine, in particolare gli accertamenti dei Carabinieri del Noe di Lecce, riguardanti le operazioni lavorative presso l’area cokerie, in particolare la fase dello sfornamento del coke presso l’area Acciaieria, segnatamente riguardo al fenomeno dello slooping e della contigua area GRF, oltre che le lavorazioni riguardanti l’area agglomerato, in particolare la fase della raccolta e dello stoccaggio delle polveri degli elettrofiltri (fino al 2007 prelevate e messe su una cariola scoperta), dimostrano come nello stabilimento Ilva non fossero adottate le dovute ed esigibili cautele destinate a prevenire disastri e infortuni sul lavoro, per tali dovendosi intendere tutte le misure preventive più adeguate  e  disponibili e non soltanto quelle generalmente praticate, ciò in ossequio del principio per cui in materia di sicurezza del lavoro non possono essere convalidati usi scorretti o pericolosi anche se generalmente praticati, e non solo, dimostrano le emergenze di indagine come l’omessa predisposizione di tali cautele ha determinato non soltanto oltre i confini dello stabilimento, nell’ambiente circostante (art. 434 c.p.) ma altresì nel contesto spaziale lavorativo, condizioni di massiccio inquinamento e di costante esposizione dei lavoratori ad agenti inquinanti di provata nocività per la salute umana. Le condizioni dell’ambiente di lavoro riscontrate dai funzionari dell’Arpa, dai carabinieri del Noe, nonché dai periti chimici, appaiono pur per dimensione ed entità degli inquinanti diffusi, tali da configurare la verificazione di un disastro (art. 437 c.p)”.

IL DOLO – Si legge ancora: “I proprietari e i dirigenti dell’Ilva hanno continuato l’attività di produzione dello stabilimento di Taranto nonostante la stessa inequivocabilmente apparisse dannosa per la collettività omettendo di impiegare tutte le conoscenze possedute e doverosamente acquisibili attraverso l’ausilio di specialisti del settore. Di più, l’aver deciso di proseguire l’attività lavorativa  con gli stessi impianti già ritenuti insufficienti a contenere le emissioni dannose senza esperire più adeguati ed efficaci interventi non può che considerarsi aspetto tale da far sussumere l’elemento soggettivo del reato in esame, oltre la colpa, del dolo“.

Inoltre, viene detto che “l’inquinamento ambientale dell’Ilva non presenta carattere di occasionalità ma appare riconducibile a carenze organizzative e strutturali dell’impresa”. Si tratterebbe di “azioni ed omissioni aventi una elevata potenzialità distruttiva dell’ambiente”“un disastro ambientale pericoloso per la pubblica incolumità determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante e reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà per la deliberata scelta della proprieta’ e dei gruppi dirigenti che si sono avvicendati alla guida dell’Ilva.

Per il Riesame “gli organi di vertice della società che gestisce lo stabilimento hanno dato prova persistendo nelle condotte delittuose, nonostante la consapevolezza della gravissima offensività per la comunità cittadina delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali e nonostante il susseguirsi, sin dagli anni immediatamente successivi all’acquisto del complesso siderurgico da parte del gruppo Riva di varie pronunce giudiziali che avevano gia’ sollevato il grave problema ambientale creato dalle emissioni della stessa industria”. Secondo il Riesame, il disastro ambientale doloso prodotto dall’Ilva è ancora in atto e “potrà essere rimosso solo con imponenti e onerose misure d’intervento, la cui adozione, non più procrastinabile, porterà all’eliminazione del danno in atto e delle ulteriori conseguenze dannose del reato in tempi molto lunghi”.

Alessandra Congedo

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