TARANTO – Quando il corteo del comitato “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti” rientra e si ferma in piazza Immacolata, è tutto un abbracciarsi, un piangere di gioia, un sorridere, un festeggiare con getti d’acqua. Centinaia di giovani si guardano increduli, stravolti da una mattinata di lotta che resterà per sempre impressa nella storia di questa città. E nella storia politica della partecipazione popolare genuina, perché proveniente dal basso, di questa Italia ancora oggi schiava di politiche economiche ed industriali figlie del boom economico degli anni ’60. Che tendevano unicamente a produrre ricchezza e a generare bisogni in un paese che aveva voglia di crescere e diventare grande il più in fretta possibile, per mettersi alle spalle un passato troppo ingombrante e scomodo di cui ancora oggi in troppo pochi si vergognano.

Peccato che, per qualche strana idea di libero mercato, alla fine a diventare grandi e ricchi sono stati in pochi. I soliti noti insomma, mentre la popolazione restava nell’anonimato, contribuendo a creare tale ricchezza sì, ma iniziando a pagare un prezzo altissimo, ingiusto, ignobile. E così sono passati i decenni. Quello costruito una volta dallo Stato in un giubilo di ebbrezza sfrenata, è passato nella mani di un privato che, sempre per qualche strana idea di libero mercato, è stato lasciato libero di fare qualunque cosa, senza che dovesse rispondere a nessuno.

Contribuendo in maniera drammatica ad aumentare esponenzialmente un inquinamento di cui in tanti sapevano, ma sul quale tutti hanno deciso di tacere. Sino a quando è stato possibile farlo. Sino a quando cioè non sono usciti i primi studi, le prime analisi, le prime proteste, le prime denunce. E l’errore, peraltro figlio di un identico calcolo politico da parte di azienda, istituzioni e sindacati, è stato proprio quello di snobbare tutto questo. Di pensare che i cittadini sarebbero comunque rimasti nel recinto di ignoranza e indifferenza nel quale sono stati rinchiusi per decenni. Non solo. Perché l’errore si è poi trasformato in arroganza nei confronti dell’inchiesta di una Procura che per la prima volta nella storia ha deciso, con grande coraggio e senso di giustizia, di andare fino in fondo. Di non cedere alle pressioni e ai giochi di potere di chi ancora una volta pensava di poterla fare franca.

E così, nel giro di appena una settimana, Taranto è stata rivoltata come un calzino. Ed ha cambiato per sempre la sua storia. Il tutto grazie ad un manipolo di magistrati da un lato e di un comitato cittadino dall’altro, che ha capito come il vero salto di qualità rispetto al passato, fosse proprio quello di coinvolgere gli operai più coraggiosi.Coloro i quali hanno trovato la forza di alzare la testa per troppo tempo obbligata a guardare in basso, perché il padrone e la fabbrica sono stati per anni una cosa sola. E guai a pensare ad opporsi. Perché il monito per tutti è sempre stato la palazzina LAF del 1998. E perché nessuno mai avrebbe voluto ripetere la fine di quei 70 martiri. E mentre la politica contribuiva a fare finta che quella fabbrica appartenesse ad un altro Stato in cui vigevano altre leggi e dove regnava un re “amico”, i sindacati preferivano restare nell’ombra, lasciando campo libero alla sospensione di quei diritti che avrebbero dovuto tutelare.

Ecco perché ancora oggi quadri e dirigenti continuano a seminare terrore, diffondendo notizie del tutto false e tendenziose, alzando al massimo la tensione, in attesa che tutto ritorni alla normalità.Ma ora che il re è nudo, o meglio ai domiciliari, il tempo dei giochi sembra finito un po’ per tutti. Improvvisamente la politica ha iniziato una disperata corsa contro il tempo per recuperare terreno, chiedendo a gran voce l’aiuto dello Stato canaglia e inquinatore, vagliando leggi e leggine inutili; mentre i sindacati, facendosi scudo del diritto al lavoro, hanno addirittura provato a sfidare la magistratura, serrando i ranghi e ringhiando come lupi che la fabbrica non si tocca, per nessun motivo al mondo. Confermando ancora una volta come la favola dell’eco-compatibilità, altro non fosse che un disegno crudele, ancora una volta creato a favore del padrone per tenerlo in vita e relegando la tutela della salute e dell’ambiente come elementi secondari e consequenziali alla salvezza della fabbrica.

Ma l’azione della magistratura ha avuto anche il potere di infondere rinnovato coraggio e orgoglio in chi per anni ha lottato per migliorare questa città, finendo per relegarsi ed essere relegato negli anni, in un’indifferenza che nel tempo aveva portato molti a lasciar perdere. Ma non tutti. Ed allora gli operai e i cittadini che si sono riuniti in questi giorni, hanno avuto l’intelligenza di capire che i treni nella vita, così come nella storia, spesso passano una sola volta. Ed un assaggio di ciò che poteva essere e si è concretizzato ieri, lo avevano mandato quando la settimana scorsa obbligarono il presidente dell’Ilva ad ascoltare le loro ragioni in una conferenza stampa “chiusa” al pubblico. E quando accadono certi episodi, nelle coscienze di chi ha voglia di lottare e cambiare, scatta immediato il pensiero che allora davvero tutto è possibile. E che il futuro lo si può scrivere con le proprie mani, disegnandolo ed immaginandolo con i propri ideali.

E che per farlo, oggi come ieri, c’è anche e soprattutto un disperato bisogno di ottenere giustizia. Che spesso coincide con il relegare a comprimari coloro che sino ad oggi hanno preteso di governare il futuro di un intero territorio, scegliendo cosa fosse giusto e cosa no. Partecipare ad un corteo in modo composto e fiero, occupare una piazza pubblica, prendersi il diritto di parola quando questo ti viene deliberatamente negato, urlare la verità di decenni di connivenze e di dolore, abbandonare il campo da vincitori senza alcun incidente, festeggiare e gioire con la consapevolezza che da oggi bisognerà vivere come se niente fosse successo e lottare più di prima per costruire un altro futuro, è quanto di più democratico possa esistere a tutt’oggi nella nostra società. E le parole velenose di chi non riesce a sopportare una sconfitta politica epocale, è il classico prurito di chi da decenni, vivendo nell’agio della politica, del sindacato, delle connivenze con la grande industria, non è disposto a cedere di un millimetro il suo potere.

Personaggi che vivono lontano da questa città o che sono qui da ospiti, che hanno l’arroganza di dire ad un’intera città come dovrebbe vivere e pensare. Ma a cui manca il coraggio di venire ad abitare da queste parti o di entrare nella fabbrica che difendono. Parlare di estremismo, di mercenari, di incidenti, inventarsi l’arrivo di un esercito di black bloc, quando tutti ieri erano a volto scoperto, smaschera in un sol istante la vigliaccheria di chi vuole ancora una volta tentare di impedire la rinascita di questa città.

Stesso dicasi per tutti coloro i quali ora plaudono questi 300 cittadini, invocandoli come eroi, mentre loro si sono guardati bene dallo scendere in piazza al loro fianco, preferendo una veglia di preghiera il giorno prima, condividendo le loro ombre ritratte sulla strada dalle fiaccole, con una curia tarantina da sempre connivente con la grande industria e mai realmente impegnata per il rispetto del diritto alla vita di cui è sempre pronta a brandirne la spada quando si tratta di vagliare leggi che potrebbero rendere questo paese un po’ più civile.

Detto ciò, è scontato sottolineare come le trappole sono già state poste sulla strada del futuro. A cominciare dal bluff del protocollo d’intesa sulle bonifiche, per finire alle tante promesse della nuova dirigenza Ilva, che quest’oggi al tribunale del Riesame si difenderà sostenendo la peregrina tesi che le colpe dell’inquinamento non sono a lei addebitabili. La battaglia per il futuro dunque, è appena cominciata. E sarebbe un delitto imperdonabile, questo sì, non capirlo, non sfruttando il momento propizio per coinvolgere una città intera al cambiamento.

Chiosa finale. Ieri in pochissimi si sono accorti che quei 300 cittadini avevano alle spalle un leggerissimo vento. Era il soffio vitale di chi oggi non c’è più. O di chi è costretto alla sofferenza in un letto d’ospedale. Perché la battaglia per la difesa della salute è sì per il futuro e per i nostri figli. Ma è anche e soprattutto per tutti quelli che ci sono stati strappati via. Che non dimenticheremo. E che non avranno pace sino a quando non avranno anche loro giustizia. “Niente è indegno quando il fine è degno”.

Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 3 agosto 2012)

* La foto è stata scattata dallo staff di Segno Urbano

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