Ilva, tutti in colpevole silenzio

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TARANTO – Sono rimasti tutti in rigoroso silenzio. Nel giorno dei primi interrogatori di garanzia, Emilio e Nicola Riva, e sei tra dirigenti ed ex dirigenti Ilva di Taranto, hanno scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. L’unico rumore alquanto fastidioso ed inopportuno invece, sono state le grida d’incitamento e gli “applausi” di circa 60 tra operai e capiturno, fedelissimi alla proprietà, che all’arrivo in tribunale a Taranto con i cellulari della polizia penitenziaria dei colleghi dirigenti delle aree sequestrate, hanno gridato slogan del tipo “Liberi, liberi” e  “libertà per chi lavora“.

Probabilmente, se si fossero degnati di leggere le due ordinanze del GIP Todisco, avrebbero evitato questa scena patetica, lasciando passare l’idea che gli arrestati fossero dei poveri innocenti vittime di un clamoroso errore giudiziario. Emilio Riva, da sempre sostenuto e apprezzato dall’intero mondo economico e finanziario italiano (ricordiamo che è anche e soprattutto opera sua il salvataggio dell’Alitalia) e considerato il ragioniere italiano dell’acciaio, con suo figlio Nicola, ha dunque scelto la strategia da adottare in quello che è senz’altro il momento più delicato della storia della famiglia Riva: il silenzio. Interrogati per rogatoria, dinanzi al GIP del tribunale di Varese, non hanno proferito parola. Negli stessi momenti a Taranto, di fronte al GIP Todisco, hanno fatto lo stesso i sei manager del gruppo: e tutti e otto, arrestati giovedì scorso, sono tornati ai domiciliari.

D’altronde, la linea difensiva di totale chiusura, era stata già adottata tempo addietro. Come si legge nell’ordinanza del GIP infatti, “non sembra trascurabile il fatto che agli esiti degli accertamenti peritali non sia stata (a tutt’oggi) contrapposta dagli indagati, che pure hanno attivamente partecipato alle operazioni attraverso propri consulenti ritualmente nominati, alcuna propria relazione di consulenza, né l’esame orale dei periti condotto dai difensori degli indagati è valso a far emergere aspetti o elementi in grado di indebolire il pregio e l’attendibilità delle conclusioni formulate dai predetti professionisti“. Ma il silenzio non cambia di certo lo stato delle cose.

Perché come scrive il GIP nell’ordinanza applicativa di misura cautelare degli arresti domiciliari, è Emilio “il vero dominus del gruppo, perfettamente al corrente di tutte le gravi lacune e disfunzioni che caratterizzavano lo stabilimento a livello di prestazioni ambientali. Eppure, nonostante ciò, a parte qualche opera di maquillage, nulla ha ritenuto di realizzare (…). Si è comportato come se il problema non esistesse. Un atteggiamento che lascia senza parole e dimostra, al di là di ogni dubbio, la volontà di continuare pervicacemente in un’attività criminale e pericolosa per la salute delle persone“. Stesso discorso per gli altri sei indagati.

L’ex direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso, il dirigente capo dell’area del reparto cokerie Ivan Di Maggio, il responsabile dell’area agglomerato Angelo Cavallo, Marco Andelmi capo area parchi, Salvatore De Felice capo area altoforno e Salvatore D’Alo capo area acciaieria 1 e 2 e capo area CRF, accusati di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. In più, è sopraggiunto il reato di “corruzione in atti giudiziari” per una sospetta mazzetta di 10.000 euro consegnata ad un perito incaricato dalla Procura di eseguire delle indagini sulle emissioni dello stabilimento. Per tutti e otto dunque, il futuro è tutt’altro che roseo.

Come si legge ancora nell’ordinanza del GIP infatti, “l’impianto probatorio che sorregge la richiesta di misura cautelare in esame risulta di tale solidità, consistenza e chiarezza da non lasciare dubbi circa la sussistenza di gravissimi indizi di colpevolezza, in relazione a tutti i reati ipotizzati a carico di tutti gli odierni indagati, il cui contributo causale alla realizzazione dei fatti delittuosi de quibus, da ciascuno apportato nella propria qualità, nel proprio ruolo e specifiche competenze all’interno dello stabilimento, appare – alla luce di tutte le risultanze investigative che saranno analizzate – davvero innegabile“. E allora è bene pubblicare e dare voce ai tanti reati di cui sono accusati gli otto indagati.

Ma con una doverosa precisazione: da sempre, abbiamo addossato le colpe della drammatica situazione di Taranto, non solo all’Ilva. Ma a tutti coloro che in questi anni hanno coperto l’operato dell’azienda. A tutti coloro i quali hanno avallato e firmato atti d’intesa che per anni abbiamo provato a capire chi, come e quando, fossero stati applicati e in che modo. A tutti coloro i quali hanno fatto finta di non sapere. A tutti coloro i quali potevano fare e non hanno fatto. Perché l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per gli otto indagati, hanno motivazioni devastanti. Che fanno male al cuore di chi, come noi, per anni ha denunciato tutto quello che ha trovato riscontro nell’ordinanza del GIP.

Ad esempio, al primo punto dei capi d’accusa, si legge che “in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro e nelle rispettive qualità, realizzavano con continuità e non impedivano una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive nocive in atmosfera in assenza di autorizzazione“, emissioni derivanti dalle sei aree poste sotto sequestro: “tutte emissioni che si diffondevano sia all’interno del siderurgico, ma anche nell’ambiente urbano circostante con grave pericolo per la salute pubblica“. Non solo. “nella gestione operavano e non impedivano con continuità e piena consapevolezza una massiva attività di sversamento nell’aria sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendole nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbane circostanti lo stesso. In particolare, IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica e cagionando eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico“.

Ed ancora: “omettevano di collocare e di gestire in maniera adeguata, impianti ed apparecchiature idonee ad impedire lo sversamento di una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive in atmosfera, nocive per la salute dei lavoratori“. Perché “provocavano e non impedivano la contaminazione dei terreni ove insistevano diverse aziende agricole locali, cagionando l’avvelenamento da diossina di circa 2.271 capi di bestiame destinati all’alimentazione diretta e indiretta con i loro derivati, a seguito dell’attività di pascolo esercitata nelle suddette aziende. Capi di bestiame poi abbattuti perché contaminati da diossina e PCB e pericolosi per la salute umana“.

Ed infine “provocavano e non impedivano, omettendo di adottare gli opportuni accorgimenti, continui e permanenti sversamenti nell’ambiente circostante di minerali e polveri riconducibili ai materiali depositati presso i Parchi Minerali Ilva e/o aree di produzione ubicate all’interno dello stabilimento, tali da offendere, imbrattare e molestare persone, in considerazione di una esposizione continua e giornaliera, nonché da deturpare, imbrattare e danneggiare, sia dal punto di vista strutturale che del ridotto valore patrimoniale-commerciale conseguente all’insalubre ambiente inquinato, decine di edifici pubblici e privati tutti ubicati nel quartiere Tamburi di Taranto e nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico (cimitero, giardini e parchi pubblici, impianti sportivi, strade, private abitazioni, ecc.). Con l’aggravante di danno arrecato ad edifici pubblici o destinati all’esercizio di un culto“.

A pensarci bene in effetti, di fronte a tali accuse, non è poi così malvagia l’idea di restare in silenzio di fronte alle proprie responsabilità.

Gianmario Leone (dal TarantoOggi dell’1 agosto 2012)

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