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Taranto, forza e coraggio – Le ordinanze del Gip segnano una svolta epocale

TARANTO – Le due ordinanze del GIP Patrizia Todisco hanno segnato una svolta epocale per questa città. Da qualunque lato la si voglia guardare infatti, le 600 pagine del provvedimento vanno molto oltre il semplice sequestro di sei reparti a caldo e l’arresto per le otto persone che per anni hanno gestito l’Ilva di Taranto, segnando un punto di non ritorno. Per tutti. La magistratura tarantina, al di là della retorica che è a fiumi in questi giorni, ha dimostrato come nella vita ognuno di noi può, se davvero lo vuole, riscrivere la storia: semplicemente facendo il proprio dovere fino in fondo, a testa alta e con la schiena dritta.

Perché quelle 600 pagine vanno molto oltre la semplice applicazione del codice di procedura penale. Sono l’input, l’incipit per un intero territorio, che ora sa tutto quello che c’era da sapere. E che tutti sapevano. Ma che in moltissimi hanno colpevolmente taciuto, coperto, appoggiato: uniti tutti da un medesimo disegno criminoso e seguendo la sola logica del profitto e del potere fine a se stesso. Tutti, non solo gli otto indagati ora agli arresti domiciliari. Perché quelle 600 pagine, tra le righe, affermano chiaramente che se tutto ciò sino ad oggi è stato possibile, è perché chi doveva controllare ed imporre i controlli si è sempre girato dall’altra parte.

E dicono anche che chi doveva tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori all’interno della fabbrica, ha preferito proteggere e tutelare i propri interessi, invece che quelli di coloro che ogni giorno hanno lasciato un po’ della loro vita dentro le tute da lavoro. Non solo. Perché se sino ad oggi tutte queste cose erano state ampiamente previste, quelle 600 pagine dicono molto altro. Impongono ognuno di noi a una seria analisi e presa di coscienza collettiva. Perché questa città ha di fronte a sé un’occasione irripetibile: quella di diventare per la prima volta protagonista del proprio destino, scrivendo senza l’aiuto di nessun altro, un futuro diverso.

E per questo certamente migliore. Perché se è vero che le 600 pagine del GIP hanno travolto come uno tsunami le classi dirigenti degli ultimi 60 anni, che per un semplice effetto domino trascinano con sé sia l’intero settore di tutta quell’imprenditoria tarantina che sino ad oggi si è arricchita lavorando nell’indotto con l’Italsider prima e con Riva poi, sia tutti i dirigenti sindacali di ogni pensiero e schieramento, è altrettanto vero che la società civile ora non può più restare ferma a guardare, lasciando che tutto scorra e continuando a scegliere di restare spettatrice piuttosto che recitare un ruolo da protagonista.

Prendiamo gli operai. Ora sono loro ad avere il coltello dalla parte del manico. Perché quel documento fornisce loro un’arma micidiale per delegittimare del tutto i sindacati, che oramai non possono più pretendere di essere attori principali della concertazione nei rapporti tra azienda e lavoratori. Hanno avuto 60 anni per fare questo, ma hanno miseramente fallito, peraltro con l’aggravante di essere stati complici nel far credere agli operai e ad un’intera città che l’Ilva si fosse da tempo messa sulla strada della eco-compatibilità. Appoggiando teorie carnevalesche, come gli accordi d’intesa, le leggi regionali e gli investimenti milionari, che la penna di un GIP ha degradato come la “più grande presa in giro” che potesse essere messa in piedi dall’Ilva. La quale, al di là di ogni considerazione, sarà obbligata di qui ai prossimi anni, ad investire miliardi di euro per attenersi a tutte le prescrizioni che inevitabilmente le saranno imposte dalla nuova AIA e/o dagli interventi della magistratura.

Ed allora dovranno essere gli operai a seguire la realizzazione di questi lavori. Saranno loro a doverli richiedere con tutta la forza che hanno in corpo, a pretenderli: per il rispetto della loro salute. Hanno tutti i mezzi per poter finalmente guardare in faccia una proprietà che sino all’altro giorno ha gestito il rapporto azienda-lavoratori alla stregua di un regime di terrore puro. E per farlo non avranno di certo bisogno dell’aiuto o dell’appoggio del sindacato. Ma è inevitabile che la spinta del cambiamento, quello vero, reale, non più rinviabile, dovrà arrivare dalla società civile.

Quelle 600 pagine inchiodano i tarantini alle loro responsabilità. Per decenni abbiamo pianto i nostri morti, maledicendo il male oscuro che ha colpito indistintamente e senza alcuna pietà. Abbiamo passato gli ultimi decenni a lamentarci, ad imprecare, a sbuffare, ad indignarci, ma alla fine dei conti ci siamo sempre voltati dall’altra parte. Siamo stati anche noi conniventi. Anzi. Abbiamo anche fatto di peggio. Perché quei pochi che hanno provato a cambiare le cose, nel tempo, hanno preferito scannarsi, litigare, agire per ripicca, piuttosto che immaginare un percorso comune. Eppure. Eppure questa città, sempre al di là di ogni retorica, è piena di eccellenze. Ci sono persone che silenziosamente, ogni giorno, operano per il bene comune dedicandosi agli altri e alla realtà cittadina. Senza nulla chiedere in cambio. Persone di ogni età e rango sociale che hanno compiuto scelte silenziose che è ora che vengano a galla in tutta la loro forza.

Perché non possiamo più attendere oltre. E’ giunto il momento di fare quadrato, di mettere insieme tutte le energie e le forze che possiede questa città, per dare vita ad un concreto progetto alternativo. Perché è bene chiarirci una volta e per tutte: al di là dei processi, delle leggi e leggine della politica, degli interventi di “ambientalizzazione” dell’azienda, degli eventuali fondi per le bonifiche se mai dovessero arrivare, il futuro non può e non deve essere questo. Se vogliamo davvero un futuro senza più veleni, senza più inquinamento, allora è il caso di dare vita, ma questa volta seriamente, ad una piattaforma comune che preveda il pensare e progettare concretamente valide e serie alternative economiche.Che certamente non potranno essere le bonifiche come più di qualche sapientone propone da tempo. Perché anche l’ultimo degli ignoranti riesce da solo a capire che una reale bonifica potrà esserci soltanto quando le sorgenti inquinanti avranno smesso di emettere veleni. Altrimenti stiamo parlando dei soliti rimedi inutili che non servono a nulla. E’ arrivato dunque il momento dell’unità, del guardarsi in faccia, del progettare con voglia e coraggio una strada alternativa.

Di mettersi in gioco seriamente, di abbandonare slogan e proclami uscendo dalle stanze virtuali di facebook, scendendo per strada, incontrando la gente, coinvolgendo un’intera comunità. Provando davvero a disegnare una città diversa, rendendosi credibili, pressando la politica a seguire la volontà dei cittadini e non a proseguire su un sentiero lungo 60 anni che ci ha portato alla deriva più totale. E’ scontato che tutto quanto di cui sopra deve ancora essere realizzato. E che per farlo ci vorranno anni. Ma le basi per partire, adesso, ci sono eccome. E lo strumento da brandire sono proprio quelle 600 pagine. Un’arma micidiale contro la quale nessuno potrà proferire parola. Non esistono altre alternative. Non agire ora, non mettersi insieme, vorrà dire continuare a delegare. A far sì che a decidere per noi siano sempre gli altri. Che a rappresentarci siano ora il politico di turno, che a difendere i nostri diritti sia il sindacalista di turno, che a dire ciò che pensiamo da sempre sia l’ambientalista di turno: solo che sino ad oggi questi soggetti hanno fatto tutto tranne quello che avrebbero dovuto. E’ arrivato il momento di non avere più leader, di porci nei confronti degli altri tutti sullo stesso piano. E chi non ci sta si accomoderà gentilmente nell’angolo.

Altrimenti, vorrà dire che tutto quello che sta accadendo in questi giorni, ingiallirà presto sulle pagine dei giornali, restando un mero ricordo di qui ai prossimi venti anni. Vorrà dire che ancora una volta avremo preferito delegare, non avendo il coraggio di metterci in gioco e lasciando il nostro destino nelle mani degli altri. Attendendo inermi il giorno in cui Riva chiuderà l’enorme mostro d’acciaio: perché se ancora qualcuno non lo ha capito, il futuro dell’acciaio italiano ha gli anni contati. Potranno essere 5-10-20-30, ma prima o poi non reggeremo più la concorrenza dei paesi emergenti. E a quel punto con chi ce la prenderemo? Chi malediremo? Ci accontenteremo di 2-3 anni di cassa integrazione per migliaia di lavoratori, trovandoci senza lo straccio di un’alternativa.

Quando viviamo in una città e in un territorio che potrebbe tranquillamente vivere e reggersi sulle sue gambe, perché dispone di risorse e bellezze uniche nel mondo. Quelle 600 pagine sono uno squarcio nel grigiore in cui ci hanno imprigionato per decenni. Sono la concreta possibilità che un’altra Taranto è davvero possibile. Sta a noi adesso non solo immaginarla, ma renderla reale. Lo dobbiamo ai nostri morti. Alle persone che ancora oggi soffrono e convivono con il male oscuro. Lo dobbiamo ai bambini che non ci sono più. A quelli che guardano il cielo dalle finestre del Moscati. A quelli che ancora devono nascere. Lo dobbiamo a noi stessi. Tutti. Nessuno escluso.

“Una perfetta scusa per sentirci ancora vivi. E’ sapere che il nostro sforzo è necessario. Che siamo come il fuoco di una ricca memoria. Che siamo come l’acqua di un fiume in piena. Che siamo la promessa di un domani migliore. Una perfetta scusa per vedere come siamo. E’ sapere che è ancora molta la strada da fare. Lascia la porta aperta a tutti i viaggiatori. Perchè i sentieri giusti vanno percorsi insieme. E alla meta arriviamo cantando o non arriva nessuno” (*).

Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 30 luglio 2012)

 

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