Cambiano gli scenari, adesso ci sono due mari a fare da sfondo. Ma “il quarto stato”, ossia il proletariato che c’è ancora, si ribella. Protesta. Perché teme lo scippo di un lavoro, perché ha paura di un mutuo che incombe. I lavoratori dell’Ilva marciano su Taranto, la invadono in migliaia. Dallo stabilimento alla Prefettura è una fiumana di gente che si riversa sul capoluogo ionico.
«Non si tocca perché altrimenti si blocca tutta l’Italia – spiega Francesco Galeano, operaio e Rsu della Fim Cisl – qua rischiamo un crack come l’Argentina possibile che nessuno se ne renda conto? Noi manteniamo il 45% della produzione nazionale e ci vogliono far chiudere. La magistratura sta facendo il suo percorso ma bisogna dare il tempo all’azienda di continuare sulla strada dell’eco-compatibilità».
Taccuino e penna sono, almeno all’inizio della manifestazione, miele per chi vuole far sentire la propria voce: «In questi ultimi cinque anni gli impianti sono passati da 10 nanogrammi a 0,2 di diossina – racconta Mario Ribaudo – fidatevi di uno che lavora nell’agglomerato al camino E312. L’azienda sta ancora investendo e si sa che bisogna fare tanto. Ma la maggior parte di noi ha un mutuo, una famiglia. Cosa facciamo noi? Qual è l’alternativa?».
Risposte che dovrebbero arrivare in primis dallo Stato. Non il quarto ma quello che fa capo a Roma. Taranto abbandonata dopo essere stata seviziata per decenni ora si ribelle e chiede una giustizia. Non il solito compromesso per zittire le bocche tra chi rivendica il proprio lavoro e chi lotta per la propria salute. Una vera soluzione che non scateni una guerra tra poveri. Perché di questo si tratta.
Il corteo si apre a un certo punto. L’eccezione è consentita a una coppia di sposi che transita sul ponte girevole ed esprime la propria solidarietà per questi lavoratori. Taranto è anche questa. Poi il serpentone prosegue la sua marcia per via d’Aquino.
«Io ho tre figli, mia moglie non lavora – confida Salvatore Ressa, operaio – ho dei prestiti da saldare. Se chiudono gli impianti non so veramente cosa fare. C’è mia figlia che deve sposarsi, non posso perdere il lavoro».
«Le opzioni sono due – gli fa eco Giuseppe Lisi, collega nell’agglomerato – o i soldi vengono impiegati per un’alternativa seria con la garanzia dei posti di lavoro oppure si dia il via a un tavolo serio per Taranto senza interrompere la produzione. Le risorse ci sono ma i nostri politici non ci tutelano».
Si arriva a Palazzo di governo per l’incontro tra sindacati e prefetto. L’attesa è snervante, l’apprensione sale. Si vive qualche momento di tensione nei pressi del portone d’ingresso poco prima dell’uscita dei sindacalisti. Quasi un saggio di quel che potrebbe essere. Poi il “quarto stato” torna verso l’azienda per una convocazione dei vertici dell’Ilva. Intanto i sigilli riguardanti i parchi minerali, le cokerie, l’area agglomerazione, l’area altiforni, le acciaierie e la gestione materiali ferrosi diventano ufficiali in tarda serata. Il quadro è drammatico, proprio come quello dipinto dal Pellizza. Intanto, però, sono trascorsi oltre cento anni.
Alessio Pignatelli (Nuovo Quotidiano di Puglia)
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