Dopo aver chiacchierato sul modo migliore per salvare l’ILVA e reggere l’urto dei provvedimenti della magistratura tarantina (proprio ieri, guarda caso, è stato depositato in cancelleria dal GIP Todisco il documento con le decisioni che potrebbero diventare realtà già questa mattina), il governo e l’ILVA hanno concordato “di avviare nei prossimi giorni un gruppo di lavoro tra i ministeri e l’azienda per analizzare le problematiche relative alle procedure di autorizzazione ambientale e di bonifica dei suoli oggetto di contenziosi, al fine di individuare un percorso condiviso per proseguire le iniziative già adottate dal siderurgico per la riqualificazione ambientale dello stabilimento di Taranto”. Infine, i ministeri e l’Ilva “valuteranno le condizioni per la migliore utilizzazione delle risorse finanziarie disponibili nell’ambito del programma di riqualificazione industriale dell’intera area di Taranto, coerentemente con quanto previsto nel decreto legge Sviluppo”. Dunque, si apriranno nuovi tavoli, ci saranno altri incontri tra tecnici dello Stato e aziendali, per redigere la famosa “road map” che in realtà altro non sarà che l’ennesima “exit strategy” che le istituzioni serviranno su un piatto d’acciaio, è proprio il caso di dire, all’azienda della famiglia Riva. Che però, crediamo, dovrà comunque vedersela con la magistratura. Perché i reati commessi non sono fantasie della mente di qualche scienziato pazzo.
Sono scritti nero su bianco nelle perizie dei tecnici nominati dal CTU della Procura. Sono presenti nel mare, nella falda, nel suolo e nell’aria di questa città. Nella memoria dei tanti che sono rimasti, perché in migliaia ci hanno lasciato. Per le istituzioni e i sindacati, invece, sarebbe cosa buona e giusta azzerare il timer della storia, facendolo ripartire dall’anno zenit della nuova industrializzazione basata sulla favola dell’eco-compatibilità. Perché furbescamente giocano sul fatto che l’inquinamento è stato prodotto anche e soprattutto dal siderurgico di proprietà statale. Cosa peraltro vera, ma solo in parte. E poi perché se è vero che l’Ilva ha inquinato in via indiscriminata per moltissimi anni, è pur vero che negli ultimi anni ha investito la bellezza di un miliardo di euro per l’ambientalizzazione degli impianti.
Quindi i periti epidemiologi, che hanno preso in considerazione dati che vanno dal 1998 in poi, soffermandosi soprattutto negli anni 2004-2010, hanno ritratto una realtà che non esiste più, che appartiene già al passato. E quindi hanno agito secondo un pregiudizio della mente e non attraverso la realtà vera di ciò che oggi è l’ILVA di Taranto. Ammettetelo: è una teoria suggestiva che fa breccia in tanti cuori e illumina diverse menti. Peccato però che istituzioni e sindacati, questa bella favola, non hanno il coraggio di andarla a raccontare a chi oggi è in un letto di ospedale. O a chi ha perso un figlio, un padre, una madre, una sorella, un fratello, o un qualunque altro parente. Come non hanno il coraggio di raccontarla agli allevatori che hanno perso tutto, o ai mitilicoltori che da due anni vedono andare al macero il loro prodotto.
Figurarsi poi se hanno il coraggio di andarla a raccontare agli operai che lì lavorano e che loro avrebbero dovuto difendere, tutelare, anche a costo di mettere in piedi una lotta fratricida, una vertenza infinita con il gruppo Riva: perché la salute dei lavoratori e dei cittadini, non doveva essere svenduta per nessuna ragione al mondo, come invece è stato fatto. Ecco perché oggi è inutile affannarsi nel recuperare il tempo perduto. Perché il tempo del fare è scaduto nel momento stesso in cui la Procura ha deciso di avviare le sue indagini. D’altronde, uno dei più grandi paradossi di tutta questa situazione, è che la perizia epidemiologica sia stata chiesta proprio dalla Procura e mai, in tutti questi anni, dalla politica, dai sindacati o dalla ASL.
Magari, per avere ulteriore “conferma” del fatto che l’ILVA è diventata un’azienda modello a livello europeo che tende verso una sfrenata e inarrestabile ambientalizzazione degli impianti, ci si potrebbe rivolgere ai periti chimici che in appena otto mesi hanno rilevato in una relazione di 500 pagine come “allo stato attuale alle emissioni derivanti dagli impianti non sono installati i sistemi di controllo in continuo né viene verificato il rispetto dei limiti dei parametri inquinanti previsti dal D.M. 5 febbraio 1998, tali emissioni non risultano conformi a quanto previsto dalla normativa nazionale. Inoltre poiché ai suddetti camini non sono installati i sistemi di controllo in continuo alle emissioni, non c’è alcun elemento che dimostri il rispetto dei limiti”.
O magari si potrebbe andare a chiedere cosa ne pensano ai carabinieri del NOE di Lecce, che il 25 giugno del 2011 hanno consegnato al GIP Todisco una relazione, dopo aver monitorato per 42 giorni di fila dall’esterno, le attività del siderurgico. Responso finale: sequestrare gli impianti. Questi sono fatti. Questa è la Storia vera. E da qui bisogna ripartire. Facendo pagare a chi ha consapevolmente sbagliato. Risarcendo un territorio e una sua popolazione. Facendo rispettare le regole sin nel minimo dettaglio, ma nello stesso tempo iniziando a programmare e finanziare concretamente un futuro economico diverso per questa città. Che da qui a 50 anni sarà senza siderurgico, perché tutti sanno che il gruppo Riva, prima o poi, andrà via per sua stessa volontà. Magari, per una volta, seguiamo i consigli di chi parla della nostra salute senza alcun interesse da salvaguardare: continuiamo a studiare e ad esaminare fino a dove l’inquinamento ha prodotto danni alla nostra salute, guardando ad un futuro senza più veleni.
Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 24 luglio 2012)
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