Emissioni inquinanti, la trilogia delle leggi inutili
TARANTO – E’ stata definita “una trilogia normativa che rappresenta un unicum al mondo”. Un tris di leggi approvate all’unanimità dalla Regione Puglia (una nel 2008, due la scorsa settimana) soprannominate “d’avanguardia”: a cui tutti i legislatori nazionali ed internazionali si “dovrebbero” ispirare nella lotta all’inquinamento industriale. Peccato che queste siano soltanto favole. Belle parole pronunciate da chi possiede grande cultura (di libri) e parla ad una popolazione che ancora oggi è molto lontana dal possedere una reale consapevolezza della realtà che la circonda. Oltre ad essere priva, per ignoranza o superficialità, di quegli strumenti indispensabili per distinguere il falso dal vero. Ci rimproverano di essere perennemente scontenti o incazzati. Sarà. Sta di fatto che, molto più semplicemente, non vogliamo essere presi in giro. E non vogliamo che si continui a giocare con la salute dei tarantini, continuando a compromettere il futuro di intere generazioni. E ora veniamo a noi.
Il primo anello che comprende la “magica trilogia” é raffigurato nella oramai famosissima legge regionale n.44 del dicembre del 2008, comunemente conosciuta come “legge antidiossina”. Che stando a quanto dichiarano le nostre istituzioni, i sindacati e ARPA Puglia, in appena tre anni avrebbe risolto il problema ambientale dovuto alle emissioni della “principale sorgente di diossine a Taranto” (il camino E312). Come si ricorderà infatti, lo scorso 27 dicembre, quando tutti si aspettavano la Relazione di fine anno da parte dell’ente regionale per la protezione dell’ambiente che avrebbe dovuto certificare il superamento del limite di 0,4 ng ITE/Nmc (stabilito dalla direttiva europea UNI EN 1948:2006 sulle rilevazioni delle emissioni tossiche e che riprende il protocollo di Aarhus del 2004) di diossine e furani nei fumi delle emissioni del camino E312 dell’Ilva di Taranto previsto dalla legge regionale in vigore dal 1 gennaio 2011, spuntò fuori una quarta campagna di rilevazione effettuata nei giorni 12-13-14 dicembre, che registrarono l’“incredibile” dato di 0,055 ng ITE/Nmc, il risultato più basso di sempre dal 2007 ad oggi.
Dato che sommato a quelli delle precedenti tre campagne (0,685 a febbraio, 0,704 a maggio e 0,112 a novembre), certificò un 0,389 ng ITE/Nmc di diossine e furani nei fumi delle emissioni del camino E312, che consentirono all’Ilva di rientrare entro il limite dello 0,4 imposto dalla legge regionale. Abbiamo più volte ribadito, sia in pubblico che su queste pagine, come quei dati siano assolutamente nulli da un punto di vista di assolutezza scientifica. Gioverà infatti ricordare come le campagne di rilevamento si articolino su tre misure effettuate in tre giorni consecutivi di 6-8 ore ciascuna. Parliamo dunque di 24 ore a campagna, per un totale di 96 ore di rilevamento dati. L’Ilva però, è un impianto che opera 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno. Un anno è composto da ben 8.760 ore, quindi siamo in presenza di una percentuale di poco superiore allo 0,80 di ore coperte nell’arco di un intero anno. Cosa accade in tutti gli altri giorni dell’anno non è dato sapere.
Inoltre, a tutto questo vanno aggiunte altre due considerazioni: la prima è che per legge ai dati registrati bisogna apportare una sottrazione dell’incertezza pari al 35%” (come prevede anche la norma UNI EN 1948:2006 dell’Unione Europea); secondo, non bisogna dimenticare i fenomeni di “diluizione” dei fumi (ovvero la presenza di altissimi valori di ossigeno registrati nella combustione): senza tutto quell’ossigeno il valore medio sarebbe stato di 0,6 ng/m3 di diossina, superiore del 50% rispetto al limite della legge regionale. Inoltre, proprio pochi giorni fa, abbiamo dimostrato come mentre dal camino E312 non esca praticamente nulla, avviene una fuoriuscita continua di inquinanti dagli elettrofiltri posti alla base dell’area di agglomerazione prodotti dall’attività di sinterizzazione. Sono le famose emissioni diffuse e fuggitive che costituiscono la vera criticità dell’impianto di agglomerazione.
D’altronde lo confermarono anche i periti quello che avviene ogni giorno nell’Ilva: “numerose e varie sono le emissioni non convogliate incontrollate che si originano dai diversi impianti dello stabilimento Ilva nella sua attività produttiva”. Eppure, nonostante i superlativi dati ottenuti dalle campagne di rilevamento, il campionamento in continuo (che pure era previsto dall’art.3 di quella legge, poi modificato nel marzo del 2009 con la complicità di tutte le istituzioni e sindacati) è ancora lunga da venire. Il che lascia pensare che quando arriva l’ARPA (che da quest’anno per via dell’AIA agirà per contro dell’ISPRA) più di qualcosa viene, diciamo così, “aggiustato”. Il secondo anello della trilogia è invece composto dalla legge sulle “Norme a tutela della salute, dell’ambiente e del territorio sulle emissioni industriali inquinanti per le aree pugliesi già dichiarate ad elevato rischio ambientale”. Della quale si sono tutti immediatamente innamorati per via della presenza della così detta VDS, la “Valutazione di Danno Sanitario”: per tutti i soggetti in campo vista come la panacea di tutti i mali. Parliamo di un rapporto annuale che ARPA, ASL e ARES dovranno redigere in riferimento al registro tumori e alle mappe epidemiologiche: dati che da queste parti non si sono mai visti.
Inoltre, la redazione del rapporto VDS dovrà attenersi ai criteri metodologici (quali?) che deciderà direttamente la giunta, il cui regolamento dovrà essere predisposto entro 90 giorni. Il che vuol dire solo una cosa: che questa legge non possiede alcun effetto immediato per la tutela dell’ambiente e della salute. Anche perché nel testo non è definita alcuna tempistica entro la quale stilare quest’atto regolamentare. Inoltre, è previsto che ogni azienda abbia un mese di tempo per presentare le sue osservazioni una volta approvato il regolamento. Cosa che ovviamente accadrà. Inoltre, una volta redatto, il rapporto VDS viene inviato alle aziende interessate per eventuali osservazioni che dovranno pervenire entro 30 giorni. Scaduto il termine, le autorità sottopongono alla Giunta regionale il rapporto: entro altri 30 giorni dalla pubblicazione del rapporto VDS, gli stabilimenti sono obbligati alla riduzione dei valori di emissione e devono presentare alla Regione Puglia un piano di riduzione da attuarsi nei successivi 12 mesi, per il conseguimento degli obiettivi di riduzione prescritti e dovrà essere approvato entro 30 giorni dalle autorità.
Dopo di che l’ARPA provvederà ad effettuare le necessarie verifiche per valutare l’effettiva attuazione dei piani e l’efficacia delle misure previste. In caso di mancato conseguimento degli obiettivi fissati, ARPA informerà la Regione, che diffiderà il gestore dello stabilimento ad eseguire, entro 60 giorni, gli interventi previsti. Ove il gestore non adempia, l’Autorità sanitaria disporrà la sospensione dell’esercizio dell’impianto. Come potete notare, dunque, una legge lunghissima nei tempi e nelle varie fasi di controllo e attuazione. Se a ciò si va a sommare il sicuro ricorso al TAR delle aziende incriminate, il gioco è bello che fatto. Il terzo anello che completa la trilogia invece, è il “Piano di risanamento aria per il quartiere Tamburi di Taranto”. Un progetto dal quale l’Ilva si è defilato quasi subito. Ciò nonostante è stato redatto comunque. E che, come sottolineato la scorsa settimana, contiene delle perle di ineguagliabile bellezza: in questo caso un vero “unicum al mondo”.
Nel testo approvato si legge che “nei giorni di particolare criticità climatica, i cosiddetti ‘Wind Days’, all’attività di cokeria viene prescritto di ridurre le operazioni di caricamento, sforamento e spegnimento di un 10% e ridurre del 10% il flusso di massa di emissioni in aria per gli inquinanti”: chi mai dovrebbe entrare nell’Ilva e controllare che nel reparto cokeria si riduca il tutto del 10%? Come si fa a stabilire quando un giorno viene considerato effettivamente un “wind days” e quando invece no? Poi, per consentire “la progressiva e definitiva diminuzione delle concentrazioni di PM10 in aria ambiente”, il piano prevede qualcosa di assolutamente indefinito: ovvero che le aziende (quali?) “provvedano alla completa copertura degli stoccaggi esistenti all’aperto.
In attesa che ciò avvenga, gli accumuli di materiale dovranno essere delocalizzati in zona sufficientemente lontana dal centro abitato e dalla strada che separa il rione tamburi dallo stabilimento Ilva o ridotti del 19% rispetto alla giacenza media del 2011 allo scopo di limitare l’altezza massima dei cumuli e la conseguente asportazione di polveri per l’azione del vento”. Ma per completa copertura degli stoccaggi esistenti per caso s’intende la copertura dei parchi minerali dell’Ilva? Ne dubitiamo, visto che un provvedimento del genere andrebbe inserito come prescrizione AIA e non all’interno di un piano regionale di risanamento dell’aria. E poi, come si fa a coprire i parchi minerali se gli stessi, prima ancora di essere coperti, possono essere spostati “in zona sufficientemente lontana” (quanto lontana? chi stabilisce il metro?) oppure, opzione alternativa a scelta, si possono ridurre del 19% rispetto alla giacenza media?
Dunque, da un lato si intima una fittizia copertura dei parchi, per poi al rigo successivo offrire la scappatoia della riduzione dell’altezza di essi: un incredibile gioco di parole degno di nota a cui ci inchiniamo anche noi. Questa sarebbe la trilogia normativa che dovrebbe “ambientalizzare” l’Ilva e tutelare l’ambiente e la salute dei tarantini per i prossimi anni. E sulla scorta di queste iniziative, oltre all’inutilità del barrieramento dei parchi minerali, la Procura di Taranto dovrebbe chiudere tutti e due gli occhi e dire un semplice “scusate ci siamo sbagliati”. Appunto, un unicum nel mondo.
Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 23 luglio 2012)
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