Non é un caso se è stata da tempo definitiva legge “salva-Ilva”. Abbiamo dunque consigliato una lettura più attenta del testo di legge approvato martedì, affinché i timori peggiori vengano giustamente ridimensionati. Che poi, a dirla tutta, Confindustria teme principalmente una cosa: la chiusura dell’area a caldo dell’Ilva, che avrebbe come effetto domino la cessazione dell’attività del siderurgico. Che andrebbe ad incenerire, in questo caso non gli si può dar torto, proprio le attività industriali dei maggiori esponenti di Confindustria. Che ieri hanno candidamente minacciato che qualora ciò avvenisse, non avrebbero problemi a spostare le loro aziende altrove, in territori dove non è presente questa ossessione sulle regole ambientali da rispettare. Per non parlare poi della disperazione che avrebbe colpito l’imprenditore Caltagirone, che proprio ieri mattina avrebbe avuto un drammatico colloquio telefonico con il presidente Cesareo, in cui manifestava la volontà di abbandonare Taranto qualora con l’Ilva chiusa non gli arrivasse più la loppa del siderurgico, fondamentale per la produzione del suo cemento: e addio investimento da 200 milioni per la “Nuova Taranto”.
Peccato che sia il buon Caltagirone che il Cesareo, dimentichino come la Cementir abbia avuto un doppio finanziamento per la realizzazione della nuova struttura: 90 milioni dalla Banca Europea e ben 20 dalla Regione Puglia. Ma in un momento di grande apprensione, ogni dimenticanza è “giustificabile”. Confindustria però sbatte i pugni sul tavolo: gli industriali tarantini non ci stanno, vogliono essere presenti ai tavoli in cui sarà deciso il destino dell’Ilva. Perché producono il 33% del Pil del territorio ionico e giustamente vogliono avere voce in capitolo. Anche perché se proprio dobbiamo dirla tutta, asseriscono da Confindustria, è lo Stato che dovrebbe impiegare ingenti risorse per le bonifiche, per ripagare decenni di inquinamento di industria di Stato. Dunque, il 70% degli investimenti futuri dovrebbero essere a carico di Roma, visto che da queste parti c’è chi, come l’Ilva, ha investito la bellezza di 4 miliardi di euro dal ’95 ad oggi per migliorare i propri impianti e per venire incontro alle leggi “restrittive” imposte dalla Regione Puglia. A meno che non si decida di chiudere tutte le industrie del territorio, mandando migliaia di operai in cassa integrazione e scegliendo per Taranto un’economia basata “sul sole e sulle olive”.
Ma Confindustria non ci sta. Vuole essere partecipe anche di progetti sul turismo, sulla cultura e perché no anche finanziare il futuro Centro Scientifico Tecnologico sull’ambiente. Il tutto, manco a dirlo, “nel rispetto dei ruoli: perché la politica è giusto che decida mentre la magistratura deve essere lasciata libera di fare il suo lavoro”: sarà. Eppure, ci piacerebbe sapere cosa ha fatto in tutti questi anni Confindustria Taranto per questa città, il suo territorio, il suo futuro. Cosa hanno fatto di concreto per migliorare la nostra realtà quelle stesse decine di imprenditori che oggi sentono franare il terreno sotto i piedi, sol perché potrebbero perdere la loro unica e vera fonte di sostentamento, ovvero l’operare nell’indotto Ilva. Perché sedersi attorno ad un tavolo per decidere tutti insieme del futuro di questa città, come auspicato anche dai vertici di Confindustria, non vuol dire continuare a difendere il proprio orticello. Né il proprio portafoglio. Forse è ora di cambiare davvero mentalità e priorità. Ma dubitiamo che i soggetti in questione siano realmente disposti a farlo. Ed allora che la magistratura vada fino in fondo. E faccia tutto il possibile per tutelare l’ambiente e la salute di Taranto e della sua provincia. Che è il bene primario di tutti. Anche per i vertici e gli imprenditori di Confindustria. Anche se quest’ultimi forse lo hanno da troppo tempo dimenticato.
G. Leone (dal TarantoOggi del 19 luglio 2012)
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