Al termine di questa “importantissima” audizione infatti, il presidente del Consiglio ha comunicato ai nostri prodi che il governo “seguirà con attenzione particolare le problematiche relative alla città di Taranto”, azione che troverà “immediata” concretezza in un tavolo con i ministeri competenti (Ambiente, Coesione territoriale, Sviluppo economico, Infrastrutture, Salute e Difesa) che agirà sotto il coordinamento del ministro Clini. Infine, il nostro presidente del Consiglio “si é rallegrato per la sinergia tra le forze politiche locali, considerandole un auspicio favorevole all’individuazione e adozione delle misure necessarie a dare soluzione alla grave situazione ambientale di Taranto”.
Probabilmente però, se lo stesso Monti venisse a conoscenza della reale situazione di Taranto, difficilmente confermerebbe questo pensiero positivo su Vendola & co. I quali, per dirla in parole povere, si sono recati a Roma per delegare al governo Monti la risoluzione della complicatissima situazione in cui anche loro han provveduto a far cadere la città di Taranto. Perché delle istituzioni serie, oltre ad informare un governo sulle problematiche di un territorio, sarebbero dovuto arrivare a questo tavolo (che loro stesse han voluto a tutti i costi) già con delle soluzioni da proporre al governo in carica. Invece i nostri sono andati a Roma per sedersi all’ennesimo tavolo, per esporre i problemi di cui soffre da oltre 100 anni la nostra città, e per chiedere aiuto al premier Monti, il quale, avendo ben altro a cui pensare, ha a sua volta affidato il problema ai ministri Clini e Passera, chiedendo loro di “vedere un pò quello che si può fare”.
D’altronde, a Vendola, Florido e Stefàno è bastato sentirsi dire che Taranto è finalmente diventato un problema di “interesse nazionale”, per tirare un bel sospiro di sollievo e lavarsene le mani (oltre che un bel pezzo della loro coscienza). Anche perché adesso, la palla passerà all’ennesimo tavolo tecnico che vedrà coinvolti diversi ministeri, oltre che sindacati e attività produttive: in pratica, si dovrà attendere chissà quanto altro tempo ancora per arrivare a produrre un minimo di idee che abbozzino una soluzione. Che difficilmente sarà trovata, visto che istituzioni, sindacati e aziende, sono concordi nel perseguire la strada della eco-compatibilità, perché “è un dovere coniugare lavoro e salute”. Dunque, si parla, perlopiù a vanvera, di “ambientalizzare” gli impianti industriali e, contemporaneamente, di avviare il ciclo “ciclopico” delle bonifiche. Il bello è che tutti ne parlano senza un minimo di costrutto: perché sanno fin troppo bene che per bonificare sul “serio” un territorio, è assolutamente fondamentale fare in modo che le sorgenti inquinanti non operino più in maniera attiva e passiva sullo stesso. Qui, invece, si vuol bonificare senza che nessuno sappia da dove partire, né come intervenire, visto che bisognerà bonificare non solo il suolo, ma anche Mar Piccolo, Mar Grande e la falda acquifera, motivi per cui saranno necessarie modalità d’intervento decisamente differenti.
Per non parlare poi, dell’altro tavolo alquanto comico che è stato già aperto: quello sull’AIA, che dovrà rivedere le prescrizioni imposte all’Ilva nello scorso luglio al momento del rilascio dell’autorizzazione. Prescrizioni sulle quali, come paradosso vuole per ogni cosa che riguardi la nostra città, sindacati e istituzioni si espressero con toni trionfalistici e di giubilo, salvo poi fare una retromarcia clamorosa e al tempo stesso ridicola dopo la pubblicazione delle due perizie nell’ambito dell’inchiesta sull’Ilva portata avanti dalla Procura di Taranto, che sconfessarono clamorosamente teorie e invettive propinate alla città in quantità “industriale” negli ultimi anni. Prescrizioni sulle quali l’Ilva ha fatto peraltro ricorso al Tar di Lecce, vincendolo, ottenendo così la sospensione delle stesse. Tra le quali manca, tra le tante altre cose, senza che “nessuno” sappia spiegarsi bene il perché, la copertura dei parchi minerali: problema che da decenni affligge gli abitanti del rione Tamburi, sul quale però mai nessuno è voluto intervenire.
Per non parlare, poi, di cosa penseranno i vari Clini e Passera quando si accorgeranno che milioni di euro furono finanziati già in passato per bonifiche mai nemmeno iniziate sul nostro territorio. Come i 56 milioni di euro previsti per il rione Tamburi finiti poi a Brindisi (a proposito, qualcuno avvisi i tanti che oggi si candidano a Sindaco o come consigliere comunale che chiedono a squarciagola dove siano finiti quei soldi perché conoscono poco o nulla della nostra città, che la Regione li dirottò a Brindisi dopo che non furono utilizzati dai nostri politici). Ma non solo: perché quei 56 milioni erano il frutto degli atti d’intesa firmati l’8 gennaio del 2003 (dal Commissario delegato per l’emergenza ambientale in Puglia, Raffaele Fitto, dal presidente della Provincia di Taranto, Rana, dai sindaci dei Comuni di Taranto, Di Bello e di Statte, Mastromarino, dalle organizzazioni sindacali (ad eccezione della Uil) ed dal rappresentante legale dell’ILVA spa, Claudio Riva): soldi che dovevano derivare in quota parte dai fondi già assegnati alla Regione Puglia con la deliberazione Cipe n. 36/2002 (risorse aree depresse 2000-2004) e in quota parte da prestazioni e servizi forniti dall’Ilva S.p.A. O come i 26 milioni di euro finanziati dal Ministero dell’Ambiente nel 2006 per la bonifica del Mar Piccolo e spariti nel nulla (altri 10 ne stanziò la Provincia, ma anche qui si è persa ogni traccia).
Insomma, ancora una volta siamo costretti ad assistere a questo triste gioco di ruolo messo in scena dai nostri politici, che fanno finta di non conoscere la storia e che espongono un intero territorio all’ennesima magra figura. In attesa di ritrovarsi tutti insieme al prossimo, inutile, tavolo.
IL COMMENTO
Mentre uscivano le varie agenzie di stampa con le dichiarazioni sul tavolo romano, ci siamo chiesti quali pensieri affollassero la mente del Procuratore della Repubblica Franco Sebastio, chiamato a breve ad adempiere ad un compito sicuramente molto difficile. Chissà cosa avrà pensato ascoltando i toni trionfalistici di quei politici da lui stesso preventivamente avvisati lo scorso 2 febbraio con una lettera, che li metteva in guardia dallo tsunami che di lì a poco li avrebbe travolti. Chissà cosa avrà pensato il GIP Patrizia Todisco, che ha avuto il coraggio di aprire uno squarcio sulla reale situazione di Taranto, andando ad alzare un tappeto sotto al quale sono stati nascosti oltre 100 anni di storia e di inquinamento, oltre che di indicibile responsabilità politiche.
E chissà cosa avranno pensato i periti chimici ed epidemiologi che hanno lavorato per la nostra procura, nell’ascoltare le frasi di politici e sindacati pervicacemente inchiodati alle loro convinzioni su questa indefinita eco-compatibilità. Proprio loro che in pochi mesi hanno dimostrato, attraverso due perizie tanto semplici quanto devastanti, che l’Ilva inquina e, inevitabilmente, ammala e uccide. In primis gli operai, che vengono prima “spinti” a manifestare per difendere un lavoro che abbandonerebbero all’istante se solo fosse prospettata loro una reale alternativa lavorativa ed economica, per poi venire strumentalmente utilizzati nella nuova campagna informativa dell’Ilva, tutta tesa a convertire i mal pensanti che si lasciano ingannare dalle apparenze (che nel magico mondo del siderurgico hanno le sembianze di dati e studi scientifici a loro dire inattuali e fasulli).
Forse non sapremo mai cosa hanno pensato tutte queste persone. Ma sicuramente avranno formulato pensieri che, nel prossimo futuro, attraverso le azioni della Procura di Taranto, potrebbero andare in tutt’altra direzione rispetto a quella intrapresa dalle nostre istituzioni e dai tanti tavoli che di qui all’eternità saranno convocati sulla “questione Taranto”. Infine, chiudiamo con una piccola provocazione. Visto e considerato che l’intera industria meccanica italiana non può fare a meno dell’acciaio prodotto dall’Ilva di Taranto (che grazie ai suoi operai, questo è bene dirlo, è di ottima qualità), Riva potrebbe intervenire a favore di una città siderurgica, Piombino, attualmente in grave crisi economica e con 2000 operai a rischio cassa integrazione, anticamera di un sicuro licenziamento. Bene: Riva potrebbe spostare un po’ di produzione in Toscana (cosa che egli stesso fece nel 2005 quando chiuse l’altoforno dello stabilimento genovese di Cornigliano), salvando posti di lavoro lì e diminuendo l’impatto ambientale qui, utilizzando i nostri lavoratori per formare quelli toscani da un lato e per le prime opere di bonifica dall’altro. Sarà pure fanta-economia, ma almeno è una iniziale proposta.
Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 18 aprile 2012)
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