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Taranto, scongiurato il disastro ambientale

TARANTO – Questa volta è andata bene. Ma nella giornata di ieri, Taranto ha rischiato di subire l’ennesimo disastro ambientale della sua storia di città di mare, convertita negli ultimi 100 anni a città a “vocazione industriale”. L’allarme alla Capitaneria di Porto è giunto alle prime ore del giorno, quando l’equipaggio di un’unità navale ormeggiata in Mar Grande, ha notato la presenza in acqua di una chiazza scura, proveniente da un mercantile ormeggiato in corrispondenza del terzo sporgente del porto, usato dall’Ilva SpA (che ha in dotazione anche il 2° e il 5° sporgente, mentre divide con la Cementir il 4°, con l’Eni che gestisce un altro pontile e un campo boe).

La nave in questione infatti, la East Castle (costruita nel 1983 dai cantieri tedeschi JJ Sietas Werft di Amburgo con il nome originario di David Bluhm), portacontainer battente bandiera panamense, un “mostro” di 133 metri e 8.000 tonnellate di tonnellaggio ed oltre 11.700 di portata lorda, salpata dal porto di La Spezia venerdì scorso, è giunta domenica presso lo scalo ionico ed avrebbe dovuto imbarcare un carico di 10.000 tonnellate di coils (laminati di acciaio) prodotte dall’azienda siderurgica della famiglia Riva.

Dopo le prime ore convulse e di grande agitazione, quello che si temeva essere un incidente di portata rilevante, ben presto si è rivelato essere un “semplice” incidente di percorso. Inizialmente infatti, si era temuta l’esistenza di una falla nello scafo della nave, da cui sono fuoriuscite tra le 10 e le 15 tonnellate di carburante. Poi, dopo un’attenta ispezione subacquea che ha scongiurato l’esistenza di tale falla, si è capito che in realtà l’origine era di altra natura. Infatti, lo sversamento di carburante è avvenuto durante l’attività di svuotamento in mare delle casse di zavorra, contenenti acqua. L’incidente dovrebbe quindi essere stato prodotto da un errore di manovra nell’apertura delle valvole tra i serbatoi di zavorra e quelli di greggio.

Già nelle prime ore del pomeriggio, l’allarme è rientrato: grazie al pronto intervento della Guardia Costiera e della società tarantina Ecotaras, specializzata per questo tipo di interventi, giunta sul posto con un battello disinquinante e due rimorchiatori. Intorno alla nave sono state immediatamente posizionate panne assorbenti ed è iniziato la fase di recupero del carburante con un particolare macchinario in grado di separare il combustibile dall’acqua di mare. La Capitaneria di Porto ha dichiarato che nell’arco di 24 ore la situazione sarà del tutto rientrata. Stessa versione data da Arpa Puglia, che ha effettuato i prelievi di rito, ma ha escluso il disastro, confermando però il danno ambientale, seppur minimo.

Ma lo scongiurato disastro, non farà certamente dormire sonni tranquilli ai tarantini. Basti pensare infatti a cosa potrebbe accadere quando nel 2015 entrerà in funzione il nuovo progetto della Total Spa denominato “Tempa Rossa” (giacimento petrolifero della Basilicata con una capacità produttiva giornaliera di circa 50.000 barili di petrolio grezzo che tramite l’oleodotto di Viggiano arriveranno presso la raffineria di Taranto di proprietà). Il progetto in questione, che ha ottenuto l’ok da parte di tutte le istituzioni locali e regionali, oltre ad aver ottenuto il 27 ottobre il decreto di VIA dal Ministero dell’Ambiente, con il parere favorevole con prescrizioni della Commissione Tecnica VIA-VAS, prevede l’aumento sino ad un massimo di 133 petroliere in transito nella rada di Mar Grande. Si tenga presente di come nello Studio d’Impatto Ambientale (SIA), manchi “stranamente” l’analisi di rischio di incidente rilevante, necessario per progetti del genere. Ma oramai non c’è più tempo per tornare indietro. Perché il progetto “Tempa Rossa”, fondamentale per il petrolio italiano, in realtà vede interessati due tra i più grandi gruppi petroliferi mondiali. Al fianco di TOTAL E&P Italia, operatore incaricato dello sviluppo del progetto, figurano la Shell (25%) e la Exxon Mobil (25%). Oltre a ciò, in pochissimi sanno che “Tempa Rossa” è l’unico progetto italiano considerato dalla banca d’affari Goldman Sachs, tra i 128 più importanti al mondo in fase di attuazione, “capaci di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattiva”.

Taranto e il suo mare però, sono preda dell’inquinamento della grande industria di Stato e non da oltre 100 anni. A partire dai Cantieri Navali Tosi e dall’Arsenale della Marina Militare in Mar Piccolo (il cui 1° seno è fuori uso per inquinamento da Pcb con il concreto rischio della scomparsa dell’attività della mitilicoltura tarantina), per poi proseguire con l’inquinamento prodotto dagli scarichi a mare di Ilva ed Eni nella rada di Mar Grande. Nel 2008 CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e l’IAMC (l’Istituto per l’Ambiente Marino Costiero di Taranto), presentarono uno studio sugli “Inquinanti prioritari nel Mar Piccolo e nel golfo di Taranto: analisi di rischio”.

In quello studio si evidenziava il “carico” dei tre principali scarichi industriali (due dell’Ilva ed uno dell’Eni). La portata oraria dei due scarichi Ilva venne quantificata di 3.480.000 metri cubi al giorno (1450.000 ogni ora), mentre quello dell’Eni in 240.000 metri cubi al giorno (10.000 ogni ora). Partendo da questi dati, fu calcolato che nella rada di Mar Grande in totale vengono mediamente scaricati ogni ora 13,2 kg di idrocarburi alifatici, di cui il 7% proveniente dallo scarico Eni ed il 93% dagli scarichi Ilva. Per quanto riguarda gli IPA, invece, fu calcolato che i reflui Ilva scaricano 3,46 kg/ora di IPA, per un totale di 83 kg al giorno che fanno 30.309 kg all’anno.

L’incidente avvenuto ieri, aumenta dunque la tensione in una città palcoscenico, in questi mesi, di un duro scontro tra i temi di ambiente e lavoro, vista l’inchiesta portata avanti dalla Procura di Taranto, che ha indagato i maggiori vertici dell’Ilva per diversi reati, tra cui disastro ambientale. Ma questa è un’altra storia.

Gianmario Leone (da “Il Manifesto” del 13 aprile)

 

 

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