Taranto in carne ed ossa – Il reportage andato in onda su La7
“La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica”. Antonio Gramsci scriveva così in un articolo intitolato “Uomini in carne ed ossa” pubblicato l’8 maggio del 1921 sulla rivista “Ordine Nuovo” (nome che prendeva spunto dalla corrente creata da lui e Togliatti all’interno del Partito Socialista Italiano che poi dette vita al Partito Comunista Italiano fondato nel gennaio dello stesso anno). L’articolo si riferiva agli eventi di quella calda primavera, quando a Torino, in seguito all’annunciato licenziamento di più di mille operai, le maestranze Fiat e Michelin entrarono in sciopero. Gli industriali risposero con la serrata degli stabilimenti e l’agitazione si concluse, il 6 maggio, con la sconfitta delle organizzazioni sindacali, il licenziamento di più di 3.500 lavoratori ed il ritorno al lavoro di tutti gli altri. In quell’articolo Gramsci difese quegli operai che rientrarono a lavoro dopo le migliaia di licenziamenti e che vennero accusati di tradimento. Li difese perché appunto “uomini in carne ed ossa”, perché “completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese”. E li difese accusando chi avrebbe dovuto dar loro sostegno e vicinanza morale e non solo, di non aver capito e reagito di conseguenza.
Quanto sopra ritorna ad essere di strettissima attualità per quanto sta avvenendo in Italia a causa della gravissima crisi di un sistema economico che si vuole ancora una volta salvare a tutti i costi. Ed è drammaticamente attuale soprattutto per quanto riguarda Taranto, una delle ultime reali espressioni delle “città industriali” che hanno contraddistinto il secolo scorso. La frase di apertura è la fotografia esatta di quanto avvenuto la mattina dello scorso 30 marzo, quando scesero in piazza oltre settemila tra dirigenti, quadri, ingegneri, contabili, operai dell’Ilva e del suo indotto, per difendere il loro posto di lavoro di fronte alla “minaccia” portata avanti dall’inchiesta della Procura di Taranto, che indaga i massimi dirigenti del siderurgico per diversi reati, tra cui quello di “disastro ambientale”. Una manifestazione immensa, ripresa da tutti i telegiornali nazionali e riproposta venerdì sera nel corso della trasmissione “Piazza Pulita”, che per l’occasione ha inviato a Taranto il giornalista Alessandro Sortino (già in passato vicino a Taranto e ai suoi problemi di inquinamento con un lungo servizio che andò in onda nel programma da lui condotto “Rosso Malpelo”) che ha girato un interessante reportage, intitolato “Schiavi del lavoro”, su quanto sta avvenendo nella città dei Due Mari, che nonostante i proclami dei nostri politici resta ancora distante anni luce dall’esser considerato un problema di caratura nazionale.
Certo, il biglietto da visita del reportage non è proprio il massimo: con Sortino che accompagnato in barca sulle acque del Mar Piccolo, manda un messaggio non proprio esatto e alquanto parziale (“le cozze di Taranto sono contaminate dalla diossina”), che si conclude con il dramma di un mitilicoltore che ha davanti agli occhi un futuro che definire a tinte fosche è un eufemismo. Ovviamente però, il fulcro di tutto è l’Ilva ed i suoi operai, con l’imponente massa umana che si appresta a marciare sulla città sin dalle prime ore del giorno. Una manifestazione che ha più di qualche ombra, a partire proprio dall’organizzatore occulto della stessa, non “conosciuto” nemmeno dagli stessi operai. I quali confermano che la giornata di lavoro é “pagata” dall’azienda, portando poi in mano un documento scritto non si sa da chi e che non è stato votato da nessuno: per il semplice motivo che “a noi ci hanno detto che il 30 ci sarà una grande manifestazione per la chiusura dell’Ilva”. Poi, una volta giunti in città a bordo di pullman messi a disposizione dell’azienda, spuntano fuori gli striscioni “griffati” e i “magnifici kit” consegnati dall’azienda, con tanto di trombette e fischietti nuovi di zecca, per creare quel folklore che non guasta mai in occasioni del genere.
Ciò che scrivemmo il giorno seguente, lo ribadiamo con forza ancora oggi: parlare di uomini servi del padrone e telecomandati dalla famiglia Riva, è un’ottusa e limitata visione politica. Perché in mezzo a quelle migliaia di operai scesi in piazza il 30 marzo scorso, al di là di qualche classico esagitato che non manca in nessun luogo di lavoro, il filo conduttore che lega la stragrande maggioranza delle dichiarazioni degli operai, è una ricetta tanto semplice quanto “demoniaca” per i nostri politici: dateci un’alternativa economica e lavorativa, ché noi lasciamo immediatamente l’Ilva; viceversa, pur sapendo che inquina, ammala e uccide, ci dà lavoro e pane per sfamare noi e le nostre famiglie. Punto. Cosa strana, ma mica poi tanto, è che nessun operaio ha parlato di eco-compatibilità, strada pervicacemente seguita dai sindacati, i grandi sconfitti di questa triste ed amara storia: probabilmente anche gli stessi operai sanno fin troppo bene che nessun investimento potrà mai rendere compatibile un’azienda che ha nel suo dna l’inquinamento. Il reportage prosegue evidenziando una spaccatura lacerante tra i cittadini e gli operai stessi, visto che quelli che escono dal turno di notte, non solo non manifestano ma si spingono “coraggiosamente” nella critica verso l’azienda e gli altri compagni di lavoro, rei di essere assenti quando si dovrebbe manifestare per la tutela dei diritti sul posto di lavoro, vedi difesa dell’articolo 18. Il 30 marzo, quindi, Riva ha dimostrato di essere ancora un Padrone in perfetto stile novecentesco, che brandisce la spada del ricatto occupazionale che pende sulla testa di migliaia di persone, pronti a tutto pur di difendere il loro posto di lavoro e, quindi, anche l’azienda del Padrone. Che in questi anni è riuscito nell’abile e sottile operazione politica di incantare i sindacati con la favola dell’eco-compatibilità, mentre dall’altro lato attirava a sé migliaia di lavoratori che non credendo più alle promesse di chi avrebbe dovuto tutelare i loro diritti, han scelto di giurare fedeltà a chi, al di là di tutto, gli permette di vivere. Perché, appunto, “uomini in carne e ossa”.
Ma il punto più drammatico del reportage, viene però toccato quando Sortino va a rendere visita ai nuovi “schiavi del lavoro”: i tanti giovani tarantini che lavorano al call center Teleperformance. Che tra stipendio e cassa integrazione non arrivano agli 800 euro mensili e per questo vivono ancora in casa con i genitori, la stragrande maggioranza dei quali “pensionati Ilva”. La prova provata del fatto che la presenza della grande industria non ha creato nessuna reale “ricchezza” per questo territorio, così come dimostrazione del fatto che la nostra classe politica ha fallito su tutta la linea non creando reali alternative economiche, “regalando” ai suoi figli la prospettiva di un lavoro che non rende liberi. Ma nonostante ciò, in molti, consci dell’esperienza pregressa dei genitori, dichiara senza esitazione alcuna che “meglio qui in un call center, che all’Ilva”. Il che è tutto dire.
Eppure, come scriveva Gramsci in quell’articolo da cui siamo partiti, “nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi”. Come dimostrano le centinaia di giovani riuniti nell’“Assemblea Popolare Tarantina” che hanno manifestato all’esterno del tribunale, perché venga garantito loro e agli operai un futuro migliore, diverso; i quali giovani, consci di rischiare di attendere per decenni che all’orizzonte spunti “il sol dell’avvenire”, han scelto di iniziare a fare da sé. Come “Ammazza che Piazza”, gruppo fondato da un giovane ragazzo di nome Claudio prematuramente scomparso lo scorso gennaio, che vede all’opera tanti giovani che armandosi di mazze e carriole, ripuliscono varie zone della città abbandonate da una politica assente anche nel provvedere alla tutela del verde comune e alla difesa delle varie bellezze di cui è dotata la nostra città. Politica che nello studio della trasmissione “Piazza Pulita”, è “degnamente” rappresentata dal governatore Vendola, il quale ancora una volta spaccia ai quattro venti le conquiste ottenute grazie alla “legge anti-diossina”, annunciando che è in cantiere con il governo Monti, l’avvio del grandioso progetto delle bonifiche. Onestamente, preferiamo evitare ulteriori commenti alle parole di personaggi che si commentano facilmente da sé, specie quando straparlano in assenza di un reale contradditorio.
Preferiamo invece concludere ancora con le parole di Gramsci, che il nostro “grande affabulatore” Vendola ha sepolto nei luoghi più oscuri della sua coscienza politica. “Gli operai per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all’avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti”. Taranto deve ritrovare sé stessa, ripartendo da quegli operai e dai suoi giovani: solo unendosi nel disegnare un percorso comune per un futuro diverso si potrà davvero realizzare nel tempo, e non solo sognare, una città che torni ad essere capitale di se stessa, oltre che della Magna Grecia che fu. Tutto il resto è morte, oltre che noia.
Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 7 aprile 2012)