Prima di entrare nel dettaglio dello studio in questione, è bene fare ulteriore chiarezza sul progetto in questione. L’azienda incaricata dello sviluppo del progetto è la TOTAL E&P Italia, affiancata dalla Shell (25%) e dalla Exxon Mobil (25%). L’Eni infatti, il 6 marzo del 2002, firmò con la “TotalFina Elf” l’accordo per la cessione della partecipazione del 25% detenuta da Eni nella concessione Gorgoglione, nella regione Basilicata, dove è ubicato il giacimento “Tempa Rossa”, situato nell’alta valle del Sauro situato nel cuore della Basilicata. Giacimento che alla fine dei lavori conterà ben otto pozzi perforati nel sottosuolo della Basilicata, dove è custodito uno dei principali giacimenti petroliferi europei su terraferma. Quando l’impianto lavorerà a pieno regime, la Total prevede di rendere operativo il tutto a partire dal 2015, avrà una capacità produttiva giornaliera di circa 50.000 barili di petrolio, 250.000 m³ di gas naturale, 267 tonnellate di GPL e 60 tonnellate di zolfo. Ed è proprio qui che entra in gioco l’Eni e la raffineria di Taranto. Il petrolio estratto sarà infatti trasportato tramite una condotta interrata fino all’oleodotto “Viggiano-Taranto”, che ha un diametro di 51 cm ed é lungo 136 km (di cui 96 in Basilicata), che collega le installazioni petrolifere della Val d’Agri alla raffineria di Taranto, suo terminale di esportazione.
Proprio per questo motivo, l’Eni ha stanziato la somma di 300 milioni di euro per la costruzione di due serbatoi per stoccare i 180mila metri cubi di greggio che arriveranno dalla Basilicata e l’ampliamento del pontile (che come tutte le strutture accessorie sarà realizzato interamente in acciaio, come si legge nel bando di gara per l’assegnazione dei lavori) della raffineria per ospitare dalle 45 alle 140 navi l’anno. E proprio l’aumento delle navi nella rada di Mar Grande, è uno dei punti meno chiari del progetto, visto che nello Studio d’Impatto Ambientale manca l’analisi di rischio di incidente rilevante, di fondamentale importanza in questi casi. Il progetto dell’Eni, inoltre, produrrà un 12% in più di emissioni diffuse, che si distinguono dalle altre per il fatto che si disperdono in atmosfera senza l’ausilio di un sistema di convogliamento delle stesse dall’interno verso l’esterno. Emissioni diffuse che rientrano nella normativa sull’inquinamento prodotto dagli impianti industriali, emanata con D.P.R. 24 maggio 1998 n° 203, che all’art.2, comma 4 recita testualmente: “Emissione, ovvero qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell’atmosfera, proveniente da un impianto, che possa produrre inquinamento atmosferico“. Dato (12% in più) confermato dai tecnici di Arpa Puglia che l’Eni non smentisce, anche se nel SIA (Studio d’Impatto Ambientale) la percentuale scende all’8%.
Ma per Confindustria Taranto, quelli appena elencati, sono problemi creati ad hoc da chi “sa soltanto dire di no”. Nello studio pubblicato sul sito del Sole 24 Ore infatti, si legge che “il progetto dell’Eni per “Tempa Rossa” valorizza il porto di Taranto, rafforza le attività di commercio petrolifero, genera ricchezza per l’economia locale“. Come? Ecco la risposta: “Una nave arrivata in porto e ormeggiata in banchina rappresenta un veicolo di ricchezza per i servizi e le attività di filiera ad essa connessi. Solo per la parte tecnico-nautica una nave di 100mila tonnellate costa, per 4-5 giorni di sosta, 60mila euro. Considerato quindi un traffico di 140-150 navi è automatico desumere la ricaduta in termini economici sul territorio locale“. Questa specie di sillogismo aristotelico non spiega però nel dettaglio a chi andranno questi soldi: si usa il termine generico “economia locale”, si citano numeri tirati un po’ a caso, ipotesi varie, ma in realtà si resta volutamente nel vago per non dare risposte chiare. Inoltre, si parla di “rafforzare le attività di commercio petrolifero” che però andranno a riempire solo e soltanto le casse dell’Eni e non certo quelle del territorio tarantino, che da sempre non trae giovamento dalla presenza dell’azienda del “cane a sei zampe”.
Per quanto riguarda invece il problema che si andrebbe a creare con l’aumento delle petroliere nella rada di Mar Grande, Confindustria Taranto dimostra anche in questo caso di avere le idee molto chiare. “L’ampia rada di Taranto – si legge sempre nello studio – consente, oltre alla sosta di più navi di diversa tipologia (anche 10 di grosso tonnellaggio in contemporanea), anche il movimento delle navi da e per le strutture militari, il tutto nella massima sicurezza di manovra. Parlare di congestionamento di navi in rada è quindi privo di fondamento – dice Confindustria -, tanto più che il porto di Taranto è in grado di accogliere contemporaneamente un totale di oltre 30 navi di tonnellaggio diverso tra rada di Mar Grande e ormeggi in porto. E qualora si volesse limitare il numero di navi in rada, basterebbe una specifica regolamentazione stabilendo un’eventuale zona di ancoraggio al di fuori di Mar Grande che, per la conformazione del Golfo di Taranto, può essere considerata una seconda, grande rada“.
In pratica per Confindustria Taranto, lo scalo ionico sarebbe in grado di ospitare contemporaneamente decine e decine di petroliere di grossa stazza, oltre alle navi militari ed alle portacontainer che fanno capolino nella rada quotidianamente, per non parlare delle navi che già arrivano ai pontili gestiti in concessione dalla stessa Eni, dall’Ilva e dalla Cementir, il tutto “nella massima sicurezza di manovra”. Confindustria Taranto però, non spiega perché visto che è tutto così chiaro, nello Studio d’Impatto Ambientale manchi guarda caso proprio l’analisi di rischio di incidente rilevante, che visti i numeri di cui sopra, potrebbe verificarsi all’ordine del giorno. Infine, per quanto riguarda l’inquinamento che si avrà come detto a causa delle emissioni diffuse, lo studio di Confindustria Taranto si limita a liquidare la questione con queste brevi parole: “La nave – conclude Confindustria – è ad oggi il mezzo più efficiente e sostenibile“. Dunque, l’inquinamento è inevitabile: anzi, dovremo anche essere grati all’Eni che usando il mezzo più “sostenibile” in circolazione, ci regalerà appena il 12% in più di emissioni diffuse: e a vedere quello che accade ogni giorno nei cieli di Taranto, per questi signori dovrebbe essere più che accettabile.
Ultima cosa: “stranamente” Confindustria Taranto nel suo studio su “Tempa Rossa”, non parla dei benefici che tale progetto porterebbe in termini di posti di lavoro in più, né dei benefici che avranno le aziende locali. Eppure, ricordiamo come proprio Confindustria Taranto, insieme ai sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, negli ultimi mesi non ha fatto altro che sponsorizzare i nuovi investimenti dell’Eni (come anche quelli della Cementir), che porteranno lavoro per gli oltre 70.000 disoccupati della provincia di Taranto e per le tante aziende in attesa di lanciarsi nel mare magnum degli appalti per i lavori che riguardano i diversi progetti della grande industria. Il perché di questo silenzio, è molto semplice: gli effetti positivi diretti di tali investimenti, non riguarderanno affatto le aziende locali. Per il semplice motivo che al bando emesso dall’Eni per l’aggiudicazione dei lavori per il progetto “Tempa Rossa”, potevano partecipare solo aziende con un profitto annuale minimo di 250 milioni di euro. E aziende tarantine di questo calibro, non ce ne sono. Anche se, a pensarci bene, rileggendo il profitto annuale minimo richiesto collegato al fatto che “il pontile e tutte le strutture accessorie saranno realizzate interamente in acciaio“, a noi il nome di un’azienda ci è venuto in mente eccome. D’altro canto, Confindustria Taranto non potrebbe mai e poi mai dire che anche per il progetto “Tempa Rossa”, Taranto e le aziende locali dovranno accontentarsi ancora una volta delle briciole: che da queste parti sanno tanto di subappalti e lavoro in nero. Oltre che di nuovo inquinamento.
Gianmario Leone
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