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“Tempa Rossa”, bomba ecologica

TARANTOLo scorso 23 marzo il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economia) ha stanziato due miliardi di euro per i lavori pubblici, che serviranno a “riavviare una fase di crescita economica indispensabile per il rilancio del Paese”. In quella seduta, è arrivato anche l’ok definitivo al progetto per lo sviluppo

del giacimento petrolifero “Tempa Rossa”, in Basilicata, “che contribuirà a sviluppare la produzione di petrolio in Italia e ridurre la dipendenza energetica dall’estero”. Il progetto è dunque pronto a partire, dopo aver ottenuto da tempo l’ok dalla Regione Basilicata e dalla Regione Puglia, dal Comune e dalla Provincia di Taranto, sino ad arrivare al decreto di “compatibilità ambientale” del settembre scorso da parte del Ministero dell’Ambiente. Il 27 ottobre 2011 poi, venne pubblicato il decreto di VIA sul sito del Ministero dell’Ambiente, con il parere favorevole con prescrizioni della Commissione Tecnica VIA-VAS.Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché nelle ultime ore è tornata a galla un vecchia storia, da molti “volutamente” dimenticata, che potrebbe rimettere tutto in discussione. In pratica, é stata “scoperta” una vera e propria bomba ecologica all’aperto presso il Comune di Corleto Perticara (Potenza), sul cui territorio si trova il giacimento petrolifero “Tempa Rossa”, che la Total E&P Italia, operatore incaricato dello sviluppo del progetto, ha intenzione di rendere operativo a partire dal 2015. La bomba ecologica in questione, riguarda un’area di smaltimento di fanghi petroliferi di estrazione che ben 20 anni fa furono abbandonati in terreni adibiti a pascoli e che solo l’anno scorso, dal lontano 1992, é stata inserita dalla Regione Basilicata in un elenco in cui figurano 415 “situazioni a rischio”.

Ma come sta avvenendo anche dalle nostre parti dopo le perizie depositate dai periti chimici ed epidemiologi nell’inchiesta in cui l’Ilva è incriminata per il reato di disastro ambientale, anche in Basilicata é già iniziato tra istituzioni, Totale ed Eni, lo scaricabarile sulle responsabilità di tale scempio ambientale. E che non sia un periodo dei migliori per la grande industria in generale, lo dimostra anche l’altro episodio avvenuto venti giorni fa: una perdita di greggio in territorio di Metaponto dall’oleodotto (con un diametro di 51 cm e lungo 136 km di cui 96 in Basilicata) che porta l’olio estratto in Val d’Agri dal Centro oli di Viggiano sino alla raffineria Eni di Taranto, che sarà utilizzato anche per il “trasporto” del petrolio che verrà estratto dal giacimento “Tempa Rossa”. Dopo una serie di incontri tra l’Eni e la Regione Basilicata, l’azienda del “cane a sei zampe” ha fatto sapere di aver messo in atto tutte le procedure di messa in sicurezza e di bonifica del caso, ma il danno ambientale provocato dallo sversamento non é stato ancora quantificato (in un primo momento ENI e Regione Basilicata hanno parlato di “lieve perdita”, che però riguarda invece un’area di 10.000 metri quadri, perlopiù adibita alla coltivazione).

Ma torniamo alla bomba ecologica trovata nel territorio del giacimento “Tempa Rossa”. Situazione che però non avrà il potere di sospendere le estrazioni petrolifere, come ha già dichiarato il presidente della Regione Vito De Filippo. Riannodando i fili della storia, si scopre che vent’anni fa, dopo le varie perforazioni ricognitive avviate dalla Total Mineraria Spa, avvenne l’abbandono dei fanghi. Rifiuti pericolosi che avrebbero dovuto essere stoccati in una discarica autorizzata, il cui iter però, iniziò soltanto dopo l’avvio delle perforazioni e non prima come logica avrebbe voluto. E con i tempi lunghi della burocrazia italiana, accadde che l’autorizzazione richiesta dalla Total Mineraria Spa per costruire la discarica non arrivò mai, con i fanghi abbandonati che vennero lasciati incustoditi all’aria aperta. Come detto, soltanto il 15 aprile 2011, quindi 19 anni dopo l’inizio delle perforazioni esplorative ed il successivo abbandono dei fanghi, la Regione Basilicata ricevette la notifica ufficiale del sito in questione, indicato come “situazione a rischio”. In questi vent’anni, nel terreno sono finiti idrocarburi, piombo ed altri pericolosi inquinanti, come ad esempio il vanadio, utilizzato per la formazione dell’acido solforico. In località come Serra d’Eboli, altro territorio interessato dalla vicenda, addirittura non é mai iniziata la caratterizzazione. La Regione Basilicata ha già annunciato che si costituirà parte civile, se e quando inizierà l’eventuale processo a carico degli inquinatori. Il problema però, é simile alla situazione che si vive a Taranto con l’Ilva (sino al 1995 Italsider di proprietà statale): perché sarà molto complicato capire di chi siano davvero le responsabilità. Il problema infatti, è che l’autorizzazione alle perforazioni concessa dalla Regione Basilicata nel 1992 (all’epoca guidata dal governatore Antonio Boccia) alla Total Mineraria Spa, è un’azienda che nel tempo é diventata di proprietà dell’Eni. La concessione “Tempa Rossa”, però, é della Total, il cui amministratore delegato ha già detto che l’azienda francese garantirà solo per il “futuro”. Total che tra l’altro si è affrettata a precisare come sino a prima della concessione ricevuta, il giacimento “Tempa Rossa” era di proprietà dell’Eni: dunque, per qualsiasi cosa riguardante il passato, è bene che la magistratura e gli organi di controllo si rivolgano all’azienda del “cane a sei zampe” e non certo ai francesi. In attesa che si appurino le varie responsabilità, l’Arpab (l’Arpa lucana) ha chiesto di conoscere qual sia lo stato attuale dei luoghi (ammasso dei fanghi, inquinamento delle acque di falda e regimazione di quelle di pioggia), ma soprattutto le potenziali ricadute in aree limitrofe ai siti sui quali sarebbe avvenuto questo smaltimento illegale di fanghi.

E’ chiaro come in tutto questo caos, siano al momento del tutto sconosciute le ripercussioni sulla salute degli abitanti dei territori limitrofi. Che però ci sarebbero, eccome. Non sono pochi infatti i pastori (le assonanze con gli allevatori della provincia di Taranto, che hanno perso tutto per colpa della diossina che ha “inquinato” i loro terreni, gli animali e conseguenti prodotti, sono davvero tante) che nel corso di questi ultimi venti anni, hanno portato le pecore sui terreni contaminati della “montagnola”, soprannome dato alla zona dove si trovano i fanghi petroliferi. A dire il vero, un’inchiesta in corso c’é e sta per approdare alla fase dibattimentale. Fu avviata dal discusso Pubblico Ministero Henry John Woodcock, prima del suo trasferimento a Napoli. Il pm inquisì “i vertici della Total per presunti accordi corruttivi con ditte lucane interessate ai lavori di realizzazione delle infrastrutture legate al giacimento Tempa Rossa, il secondo più grande dopo quello dell’Eni (50.000 barili giornalieri a regime contro gli 85 mila attuali della Val d’Agri)”. E un capitolo di quell’inchiesta, vede come parti lese i pochi agricoltori che si opposero all’esproprio dei terreni (il giacimento petrolifero é opera di preminente importanza nazionale, unico progetto italiano considerato dalla banca d’affari Goldman Sachs, tra i 128 più importanti al mondo in fase di attuazione, “capaci di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattiva”) che avvenne su delle cifre imposte dalla compagnia petrolifera e ritenute dagli agricoltori e dagli stessi inquirenti a dir poco ridicole: si parla infatti di somme di dieci volte in meno del valore di mercato. Ma nel frattempo, è stata aperta anche una nuova inchiesta della Procura di Potenza sulle morti sospette di tumore: proprio come sta avvenendo anche a Taranto. E le indagini in corso stanno facendo tremare non poco le varie compagnie petrolifere, Eni in primis, anche perché tra i “protagonisti” ci sono le prime vittime della storia petrolifera lucana. Il dubbio che i veleni siano entrati nella catena alimentare, per molti, si è già trasformato in certezza.

Gianmario Leone

g.leone@tarantooggi.it

 

 

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