Taranto e Ilva, riscrivere la storia si può
Stiamo parlando di un cambiamento radicale, non solo economico, ma soprattutto di mentalità. Quello avvenuto venerdì mattina per le strade del centro cittadino, non può essere ridimensionato ad un semplice evento folkloristico. Così facendo, infatti, oltre che in un errore di natura politica, rischieremmo di incorrere in un’analisi socio-economica parziale e approssimativa.
E’ fuori discussione che la manifestazione che ha visto protagonisti oltre 7 mila operai, che hanno agito sotto la misteriosa sigla “i lavoratori Ilva”, contenga al suo interno un misto di problematiche non di poco conto. Ad esempio: chi ha chiesto l’autorizzazione per questa manifestazione? Per conto di chi hanno manifestato le migliaia di “tute” viste ieri? E tenendo conto che nell’Ilva ci sono non più di 13 mila tra operai, categorie speciali, quadri ed impiegati, chi è rimasto ieri in fabbrica a lavorare? Non trattandosi di uno sciopero, né di una giornata di malattia, è chiaro che dietro tutto questo ci sia la mano pesante dell’azienda, che ha mandato un messaggio molto chiaro alle istituzioni, magistratura in primis: state attenti a giocare con il fuoco perché noi possiamo incendiare gli animi di migliaia di lavoratori dall’oggi al domani. Che sarebbe totalmente sbagliato definire soldatini di Riva o, peggio ancora, lavoratori venduti al Padrone. Perché dietro i tanti sorrisi visti ieri in strada, agli slogan, agli striscioni, ai fischietti (tra l’altro tutti nuovi di zecca preparati ad hoc per l’occasione), dietro quegli occhi c’era una sola grande paura: ovvero quella che il Padrone, appunto perché privato, possa anche decidere dall’oggi al domani di sacrificare sull’altare del libero mercato proprio le migliaia di operai visti ieri, proponendo magari una cassa integrazione forzata, che potrebbe poi trasformarsi in un licenziamento di massa qualora Riva, libero da qualunque vincolo, decidesse un bel giorno di chiudere baracca e burattini e lasciare Taranto al suo destino, con una cattedrale nel deserto che continuerebbe ad inquinare anche in stato di abbandono. La verità è che quei 7 mila operai, che siano stati costretti o minacciati o che abbiano manifestato perché poco informati o perché impauriti da un futuro oscuro, a tutt’oggi non hanno guide né punti di riferimento.
Sono loro le prime vittime, anche se vediamo la questione dal punto di vista della salute, di una classe politica che negli ultimi 60 anni non ha creato quelle alternative economiche che ora rappresenterebbero la più grande minaccia per il futuro dell’Ilva a Taranto, anche peggiore dell’azione della magistratura. Politici, sindacati, classe dirigente, intellettuali, borghesia e ceto medio, in tutti questi anni sono stati silenti complici di una gestione della cosa pubblica semplicemente disastrosa. Quando arrivò Riva nel lontano 1995, gli fu permesso di mandare in pensione anticipata la famosa “classe operaia”, per sostituirla con l’assunzione di migliaia di giovani (se l’età media dei lavoratori Ilva si aggira tra i 35 e i 37 anni è proprio per questo motivo) togliendo così di fatto dal mercato locale quella forza lavoro che oggi sarebbe potuta essere la linfa vitale per un’economia alternativa. Invece si è lasciato fare, si è permesso al Padrone tutto ed il contrario di tutto (non solo in termini di inquinamento), con la compiacenza di una classe politica che ha usufruito anche e soprattutto praticamente di un impero economico che ha finito per condizionare e stringere in una tenaglia asfissiante, l’economia di un’intera provincia. Con i sindacati che non hanno saputo e voluto cogliere quello che stava accadendo, aiutati da una classe imprenditoriale che sino alla crisi economica degli ultimi anni, ha attinto fiumi di denaro dalle mammelle di mamma Ilva. Con una classe borghese ed intellettuale che ha preferito continuare a guardare comodamente l’orizzonte dai suoi salotti intellettuali con vista Mar Grande ed un ceto medio che silenziosamente si è arreso ancora prima di combattere, lasciando andare via migliaia di giovani 18enni, perché non hanno avuto il coraggio di dir loro che Taranto non poteva offrire loro un futuro migliore per colpa anche della loro omertà.
Ed ora che finalmente sono stati aperti gli armadi e i cassetti, grazie alle perizie di esperti chimici ed epidemiologi che non hanno paura dell’impero industriale che ha colonizzato decenni fa la nostra città, ora che la Magistratura tarantina pare decisa ad offrire un riscatto atteso vanamente per anni da un’intera città, solo ora possiamo intravedere all’orizzonte un futuro diverso. Ancora lontanissimo perché da costruire passo dopo passo, mattone dopo mattone. E lo costruiranno solo i puri, solo coloro che hanno sempre amato e amano ancora questa città. Per dare un futuro diverso e migliore non solo ai loro figli, ma anche alle migliaia di lavoratori oggi imprigionati nelle grandi industrie e ad i loro figli. Per tutti gli altri, ci dispiace per loro, non ci sarà spazio alcuno se non come ruoli di semplici comparse. Non solo i verdetti della magistratura, ma anche quelli della Storia, presto o tardi, vi inchioderanno alle vostre responsabilità.
Gianmario Leone
La forza delle idee e gli errori del passato
Partiamo da un punto fermo: il presidio svoltosi ieri mattina all’esterno del tribunale, è stato organizzato dall’”Assemblea popolare tarantina”, e non come erroneamente riportato dai distratti mass media locali e nazionali, dagli “ambientalisti”. Dunque, parlare di scontro tra gli operai scesi ieri in strada sotto la sedicente sigla “i lavoratori Ilva” e gli ambientalisti, non ha alcun riscontro nella realtà dei fatti. Tanto più se si pensa che nel variegato mondo che costituisce l’assemblea popolare tarantina, di ambientalisti non ce ne sono. O meglio. Non sono presenti soggetti che vogliono essere annoverati sotto una semplice etichetta. Perché giovani appartenenti ad aree e movimenti diversi, ritrovatisi a condividere gli stessi principi e ideali, che pur parlando lingue differenti, mirano ad unico obiettivo. Ovvero quello di costruire una città nuova, diversa, in cui vengano tutelati i diritti di tutti, nessuno escluso. Una città che guarda ad un futuro senza più industrie e inquinamento, ma nello stesso tempo che offra lavoro sano per tutti e, magari perché no, anche un po’ di sana felicità.
Questa premessa si rende obbligatoria se si vuole capire a fondo ed analizzare senza preconcetti ciò che è avvenuto ieri mattina all’esterno del tribunale. Una riflessione che dovrebbero fare a fondo anche gli ambientalisti tarantini, che ieri sono stati “gentilmente” invitati a farsi da parte, perché presenze ingombranti non gradite da un movimento che “non mira ad occupare poltrone” in un futuro vicino o lontano che sia. D’altronde, quante volte in questi anni da queste colonne abbiamo invitato a più riprese le associazioni ambientaliste, a coinvolgere nelle loro battaglie soprattutto i giovani dei vari movimenti e quelli delle scuole? Quante volte li abbiamo invitati a confrontarsi senza presunzione e personalismi i cittadini di Taranto, lasciando da parte isterismi vari, misti ad una sorta di onnipotenza intellettuale che li ha tenuti per anni lontanissimi dalla realtà? Tutto questo, e gli ambientalisti questo lo sanno molto bene, non è stato mai fatto. Ed ora che hanno scelto di fare il “grande salto”, scendendo in prima persona in politica o appoggiando per vie esterne vari candidati sindaco, non possono più pretendere di essere considerati ancora società civile. Né possono pensare di tornare ad esserlo dall’8 maggio in poi, qualunque dovesse essere il risultato che uscirà dalle urne elettorali. Per la prima volta nella loro breve storia, gli ambientalisti hanno dovuto fare i conti con chi interpreta la politica e l’amore per la propria città da punti di vista completamente diversi dai loro. Con chi crede che la vera politica si trovi nelle strade, nel confronto quotidiano con i problemi dei cittadini, con chi vuole restare al di fuori del sistema per combatterlo con le forme più diverse, ma non per questo di minor impatto o serietà rispetto a chi ha scelto la via della politica istituzionale. Che dovrebbe avere tra le principali qualità, quella della coerenza. Che invece ieri è mancata, ed è proprio questo l’errore politico più grande: non si può schierarsi apertamente per non manifestare, dichiarandosi a disposizione delle forze dell’ordine, additando gli altri come possibili autori di eventi violenti, e poi, come se niente fosse, presentarsi lo stesso ad un presidio organizzato da altri, e tentare, vanamente, di convincere quest’ultimi che sono loro a sbagliare. Si spiegano così i vari cori contro gli ambientalisti presenti e quello partito all’indirizzo di Bonelli, convocato erroneamente sul posto dagli ambientalisti nella speranza di ricucire uno strappo oramai insanabile. Oramai le strade si sono divise, è giusto che ognuno proceda per la propria strada.
Ciò detto, è bene che le varie anime dell’assemblea popolare, sappiano che il compito che attende loro, se possibile, è ancora più complicato di quello che hanno scelto gli ambientalisti. Perché per cambiare davvero questa città, per disegnare un futuro che abbia come unico obiettivo quello del bene comune collettivo, è priorità assoluta mettere da parte le divisioni e le incomprensioni degli ultimi anni. Che ognuno lavi i panni sporchi, faccia ammenda degli errori passati, ma si metta a completa disposizione di un progetto politico nuovo, che solo così potrà dirsi davvero alternativo. Le giovani anime presenti ieri in strada, hanno la possibilità concreta di riscrivere la storia di questa città. Ma dovranno volerlo con tutte le loro forze. Senza personalismi o protagonismi vari. Ma solo con la forza delle idee e dei valori. Come diceva una vecchia canzone: “Alla meta arriviamo cantando, o non arriva nessuno“.
Gianmario Leone