E’ bene ricordare che i provvedimenti contro cui l’Ilva ha fatto ricorso, giudicati dagli avvocati che difendono l’azienda Francesco Perli e Roberto Marra “troppo restrittivi“, riguardano i sistemi di abbattimento di macro e micro inquinanti, il piano di monitoraggio e controllo delle emissioni e la revisione della rete di smaltimento delle acque reflue. In merito al primo punto, circa la previsione di misure atte a contenere le emissioni di macro e microinquinanti dai camini E422, E423, E424, E425, E426, E428, i giudici amministrativi nella sentenza scrivono che “i suddetti punti di emissione delle sostanze disperse in aria risultano assoggettati ai valori/limite fissati dall’autorizzazione e ad un sistema di verifica costante che ne permette la riconducibilità entro i limiti; cosicché la necessità di introdurre non meglio precisati “sistemi di abbattimento” si mostra priva della doverosa chiarificazione in ordine al contenuto specifico dell’obbligo imposto (sia quanto ai metodi di abbattimento che alla individuazione dei micro e macroinquinanti da abbattere) alla Società ricorrente, la quale adduce di aver già adottato le migliori tecniche disponibili; perciò, la sottoposizione del processo produttivo ad altri dettami, senza che ne siano puntualmente definiti gli elementi ed ancorché l’obbligo di contenimento delle emissioni dai camini già assicurato, espone la Società ricorrente a un pregiudizio che giustifica la concessione sul punto dell’invocata misura cautelare, stante l’assenza di sicuri parametri sulla base dei quali conformare l’attività richiesta e non procrastinabile“.
Dunque, la sospensiva cautelare avviene per due motivi: da un lato perché l’azienda ribadisce come abbia adottato “le migliori tecnologie disponibili” (il che per l’Ilva potrebbe anche essere un boomerang, visto che dimostrerebbe come, nonostante l’applicazione delle migliori tecnologie, l’inquinamento non viene eliminato e si allontana dalla famosa eco-compatibilità promossa da politici, sindacati, azienda e parte dell’ambientalismo locale); dall’altro perché le prescrizioni appaiono troppo generiche e mal formulate: non perché, quindi, sbagliate nella loro essenza o prive di fondamento. Per quanto riguarda la divisione dell’attuale rete di smaltimento delle acque reflue di stabilimento e dei relativi scarichi autorizzati, si legge che “l’affidamento al Consorzio ASI della gestione della rete esterna allo stabilimento risulterebbe giustificata se all’imbocco fosse installato un depuratore (ad oggi solo previsto), mentre il non affidamento al Consorzio ASI e quindi il mantenimento a carico dell’ILVA della gestione delle vasche comporterà il pericolo che gli scarichi di altri operatori autorizzati affluiscano, con la mera ipotesi di trattamento, nel tratto terminale dei canali in concessione all’ILVA, con inevitabili ripercussioni in tema di sua diretta responsabilità, palesandosi, allo stato, insufficienti le sole cautele riguardanti il monitoraggio e il censimento delle acque scaricate“.
Il che, di base, può anche essere giusto: bisognerebbe però spiegare e chiarire perché tale depuratore, al momento solo previsto, non sia stato ancora installato (“Proposta Tecnica tra Regione Puglia, Provincia di Taranto, Consorzio ASI Taranto, Arpa Puglia – DAP Taranto per la risoluzione delle problematiche degli scarichi nei canali ASI delle imprese insediate in Area Consortile ASI” stipulata il 5 maggio 2011).
Infine, per quanto riguarda il piano di monitoraggio e controllo delle emissioni, si legge nella sentenza del Tar come “il contrasto tra parere istruttorio e Piano di Monitoraggio e Controllo per quanto concerne più prescrizioni, è evidente che la distonia tra queste fonti, entrambe assunte nell’AIA, determina perplessità in ordine agli adempimenti cui l’ILVA deve attenersi, non bastando la mera affermazione, resa in giudizio, circa la prevalenza del parere sul P.M.C., essendo stato anche quest’ultimo espressamente approvato ed avendo, al pari di quello, efficacia cogente“. In pratica, l’Ilva si trova in una “terra di mezzo” per cui non sa (?) quale piano e quali prescrizioni rispettare: se quelle del parere istruttorio o quelle del Piano di monitoraggio e controllo, entrambi presenti nell’A.I.A.: sarebbe interessante girare la domanda ai componenti della famosa commissione IPPC e chiedere conto del perché di tanto caos e approssimazione.
Infine, una buona notizia. Il Tar, sempre nell’udienza di mercoledì, ha respinto, anche se al momento solo in sede cautelare, il ricorso dell’ILVA avverso la delibera del Comitato di coordinamento dell’accordo di programma Puglia-Basilicata, con la quale erano state rideterminate le tariffe della componente ambientale dell’acqua. La delibera impugnata, adottata il 28 ottobre scorso, su proposta della Regione Puglia, dal Comitato di coordinamento per l’accordo Puglia – Basilicata, prevede la riduzione dal 1 gennaio 2012 del costo dell’acqua per l’uso agricolo del 25 % e l’aumento per quello industriale (leggi Ilva) nella misura del 250 % per il 2012, del 400 % per il 2013 e del 500 % per il 2014.
L’Ilva ha infatti sempre rifiutato la proposta dell’ente regionale che prevedeva la possibilità di utilizzare l’acqua proveniente dall’impianto di affinamento Gennarini-Bellavista di Taranto, risparmiando così i 250 litri al secondo che l’Ilva preleva dal Sinni ed utilizza per i suoi scopi industriali: 7,5 milioni di metri cubi di acqua potabile adoperati ogni anno per raffreddare gli impianti, che potrebbero invece essere invasati e utilizzati per Taranto e il Salento, alimentando la Diga Pappadai. La speranza è che, almeno su questo, il Tar non ceda: se l’Ilva vuole continuare ad usare l’acqua del Sinni ignorando le esigenze idriche di territori di diverse provincie, che almeno lo faccia a suon di milioni di euro. D’altronde, cosa volete che siano 6 milioni di euro (la cifra calcolata in base all’aumento sino ad un massimo del 500%) per un’azienda che dice di aver investito 1 miliardo di euro per “ambientalizzare” i propri impianti?
Gianmario Leone
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