Non c’è dignità del lavoro senza tutela della salute – Il dovere delle istituzioni
Dalla Valle di Susa una lezione di civiltà. I telegiornali ci mostrano in questi giorni le immagini di una popolazione unita, compatta e vitale, impegnata nella salvaguardia della propria Valle. Nonostante le rassicurazioni sotto il profilo ambientale, il movimento dei No Tav ha visto il dispiegarsi di varie proteste contro la costruzione della ferrovia ad alta velocità. La rivendicazione è chiara: si difende non solo un territorio, ma la salute e i valori di coloro che abitano la Valle.
Ad animare il movimento ambientalista di Taranto, quello delle persone e non dei partiti, sono tutto sommato le stesse ragioni di fondo anche se qui più che di timori, si parla di evidenze scientifiche. A scorrere le 282 pagine della perizia depositata lo scorso primo marzo dal gip Patrizia Todisco nel processo che vede sul banco degli imputati lo stabilimento Ilva, si può leggere un elenco di patologie devastanti per la salute dei tarantini che sarebbero state provocate dall’inquinamento perpetrato in questi anni.
Per quanto terribile, la relazione mette in luce una realtà già tristemente nota a chi da sempre è costretto a vivere sulla propria pelle il dramma di una industrializzazione mai regolamentata.Seguo il processo Ilva da Milano. Ed è interessante confrontare le opinioni sia di chi, come me, ha il sangue rosso-blu che scorre nelle vene, sia di chi ha visto distrattamente il siderurgico più grande d’Europa in una foto sbiadita del giornale. Le riflessioni spesso convergono su un punto: “dal momento che il mostro c’è tanto vale tenerlo; d’altronde il danno ambientale oramai ha raggiunto livelli ragguardevoli quindi vale la pena preservare ciò che di buono c’è: i posti di lavoro. E se ci scappa il morto (uno si fa per dire) – la voce diventa sibillina – in fondo è il prezzo da pagare per un benessere economico che l’Ilva assicura alla città, alimentando il 70 per cento del Pil”.
L’indignazione d’impeto, per un’antica contrapposizione lavoro-salute che risulta ai miei occhi inaccettabile, trova lo spazio, nel silenzio, per una riflessione. In un periodo storico di crisi economica, in cui la disoccupazione giovanile ha sforato tutti i tetti e quella di ritorno, che fa capolino nell’età in cui una persona dovrebbe iniziare ad intravedere la pensione, i valori cambiano. E forse ha più dignità, agli occhi ormai deformati di una società in crisi, un operaio che si ammala di una patologia legata al lavoro svolto (solo per un cavillo legislativo non definita “morte bianca”), ma capace di garantire la sopravvivenza della propria famiglia ad un altro che, non riuscendo a reinserirsi nel mercato, ne rimane tagliato fuori. Raggiungendo così la morte civile e morale.
Non si può scivolare nel terreno viscido della disperazione. E specularci sopra. Ristabilire l’ordine della realtà è compito delle istituzioni che non devono e possono farsi influenzare dallo status quo. Una città, un Paese si rialza solo se costruisce il futuro su regole certe. E’ la nuova generazione, quella che ha conosciuto solo la crisi del benessere, a chiederlo con forza, impartendo quella lezione di civiltà che i loro genitori non hanno saputo trasmettere.
Fabiana Di Cuia