Il sincero grido di dolore di 21 operai dell’indotto Eni

Eppure, nonostante ciò, dopo anni e anni di sacrifici, ci si vede scavalcati da altri lavoratori, i cosiddetti “forestieri”; si vede la propria ditta andare incontro ad un ridimensionamento continuo, anticamera di un fallimento annunciato, perché il proprio responsabile non ce la fa ad opporsi ad aziende più forti, anch’esse di altre provincie, preferendo il silenzio che vuol dire sopravvivenza, ad esporsi alla denuncia che apre inevitabilmente le porte del baratro. E così, come nel più classico dei giochi dell’oca, invece di andare avanti passo dopo passo verso un futuro fatto di certezze, si procede all’indietro, nel disperato tentativo di resistere al corso contrario della corrente degli eventi: che pur essendo di natura prettamente economica, finiscono inevitabilmente per travolgere l’esistenza di ogni singolo uomo, mandando all’aria i progetti di una vita.
E’ una denuncia forte quella dei 21 lavoratori della ESMIT srl: perché tocca fili sensibili, quasi innominabili, sui quali si reggono i rapporti di forza e di potere all’interno della raffineria Eni di Taranto, da sempre una specie di area militare nella quale nessuno può entrare, dove, tranne gli operai che vi lavorano, sono in pochissimi a sapere quello che avviene davvero lì dentro. un’azienda che si apre all’esterno solamente quando ha bisogno di comunicare, in via del tutto arbitraria, che intende potenziare la propria produzione o portare avanti un nuovo progetto: il tutto, senza cercare alcun dialogo, continuando per la propria strada che si chiama petrolio, soldi, progresso. Tutto il resto non conta.
Ed é in un clima del genere che, al di là degli ovvi e scontati problemi di inquinamento e danni alla salute che una raffineria di petrolio inevitabilmente finisce per causare all’ambiente circostante e ai suoi operai che la tengono in vita, che l’assenza della politica e dei sindacati, finisce per isolare, ignorare, non vedere e non sentire le cose più semplici: come le difficoltà nell’andare avanti giorno per giorno di ogni singolo cittadino, operaio o meno che esso sia. Perché c’é sempre qualcuno più forte di te, pronto a decidere per te e per la tua vita nel giro di un secondo. E la “minaccia” finale del suicidio in caso di licenziamento o di mancato aiuto da parte delle istituzioni, é una provocazione, forte, radicale; una specie di ultimatum morale: perché é evidente che chi ha avuto il cuore di scrivere e sottoscrivere questa lettera-denuncia, vuole continuare a vivere e a lavorare con dignità. Vuole continuare ad abbracciare i suoi cari da qui ai prossimi cento anni.
Ed al di là delle tante denunce che questo giornale può fare in termini di inquinamento ambientale, su una politica assente o su dei sindacati continuamente compiacenti con la grande industria, l’inizio per un cambiamento vero, che guarda ad una prosp ettiva futura senza l’ombra della grande industria per questa città, può partire proprio da una lettera simile. Taranto é una città dalle mille risorse inespresse, che non ha bisogno dell’acciaio, del petrolio, del cemento, dei rifiuti, per vivere o peggio ancora, sopravvivere. E’ una città che ha nelle sue radici, nella sua storia, nella sua natura, le potenzialità per disegnare un futuro lontano anni luce dalla grande industria. Basta solo volerlo. E crederci fermamente. Questo sistema economico é al collasso. E sta per implodere. Ma c’é ancora tempo per salvarsi.
Gianmario Leone
LA DENUNCIA – “L’ultima barbarie consumata sulla nostra pelle è di appena qualche giorno fa, compiuta dal “mediatore” che spartisce con strani meccanismi di sub e ri-sub appalto la distribuzione di carburante per conto dell’API ( società petrolifera proprietaria anche del marchio IP ) che, a fronte di un calo dei consumi, anzicchè spalmare equamente la riduzione fra tutti i trasportatori in servizio (13 baresi e 3 tarantini ) ed applicare una sensata rotazione fra tutte le autobotti presenti (e dunque fra tutti gli autisti impiegati ) ha pensato bene di sopprimere ben 2 autobotti, “ovviamente” tutte e due tarantine e guai a toccare i baresi, che al danno aggiungono la beffa poichè si vantano di avere protezioni politiche che noi tarantini non ci siamo mai potuti permettere. La prima autobotte soppressa la guidava il sottoscritto, ora sono a casa disoccupato. La seconda invece la guidava un collega che dopo il preavviso di licenziamento minaccia di farla finita. Anche in quest’ultimo caso, il nostro titolare non ha avuto il coraggio di reagire, non ha mosso un dito per difendere la sua azienda e i suoi dipendenti, dice che se si lamenta gli tolgono anche quel poco di lavoro rimastogli. Noi, però, siamo stanchi di questo sterminio che sacrifica sempre e soltanto noi tarantini. Ora intendiamo avere giustizia, lo dobbiamo ai nostri figli che non sono inferiori ai figli dei baresi, nè di altri forestieri… Politicamente protetti. Chiediamo che quest’ultima mattanza non passi, questa volta ci potrebbe scappare il morto, per suicidio. E non si dica poi che non abbiamo chiesto aiuto. Si confida nella solidarietà di chi ci legge e nell’intervento delle istituzioni preposte”.