L’Ilva è stata costruita a Taranto cinquanta anni fa e in mezzo secolo le polveri, i fumi e tutti i vari inquinanti sono silenziosamente diventati parte della vita quotidiana dentro e fuori l’acciaieria, ma soprattutto, sono diventati pericolosamente parte della terra, degli animali e delle persone. Negli slogan e nell’opinione pubblica sta montando anche l’analogia con il recente caso Eternit di Casale Monferrato (TO), ma va fatto notare che le prime sentenze sul siderurgico jonico risalgono già agli anni ottanta. Tuttavia, nelle precedenti attività della Magistratura, i giudizi finali erano stati sempre espressi sulla base del solo reato di «gettito pericoloso di cose» (art. 674 Codice Penale), riferito soprattutto alle emissioni di polveri nocive. Il nesso causale tra le emissioni e l’inquinamento, infatti, lo si ritrova solo in un rapporto dell’ASL di Taranto dell’aprile 1995 e sopratutto nelle conclusioni del Registro Tumori Jonico Salentino del 1999. Purtroppo, si è visto come l’istituto del registro non abbia avuto poi la necessaria continuità per poter delineare e tracciare una situazione più chiara, puntuale e articolata in merito alla correlazione e diventare strumento per la programmazione sanitaria e per la prevenzione in un’area a rischio.
Il 2012, quindi, rappresenta oggi un vero e proprio giro di boa nelle vicende tarantine, vediamo perché. Il 27 febbraio 2008, l’associazione Peacelink ha portato in tribunale un esposto con i risultati delle analisi di laboratorio effettuate sui formaggi provenienti dall’area limitrofa all’acciaieria. Tali prodotti sono risultati contaminati dalla diossina e in seguito alle analisi dell’Istituto Zooprofilattico di Teramo si è proceduto, negli anni seguenti, all’abbattimento di migliaia di capi contaminati. Da quel giorno è iniziato un percorso giudiziario che solo ora mostra i suoi primi frutti nella recente perizia. Ritornano ad essere indagati Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa sino al 19 maggio 2010, e Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento Ilva di Taranto. A loro si aggiungono Nicola Riva presidente dell’Ilva dal 20 maggio 2010, Ivan Di Maggio, dirigente capo area del reparto cokerie, e Angelo Cavallo, capo area del reparto Agglomerato. Le accuse sono: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico. La perizia chimico-scientifica, durata un anno, è stata redatta da quattro esperti appositamente nominati; per appurare la connessione tra le emissioni e la salute umana bisognerà attendere un’ulteriore perizia medico-epidemiologica ed il successivo iter giudiziario.
Cosa dicono oggi i periti? Viene calcolato che l’impatto attualmente prodotto dalle polveri emesse in atmosfera dallo stabilimento ammonti a 668 tonnellate totali annue. La perizia si basa su sei quesiti fondamentali che enucleano tutte le sfaccettature della correlazione tra inquinanti ed effetti sanitari e ambientali. I quesiti che principalmente accertano questo nesso causale, sono soprattutto i primi tre. Al primo «se dallo stabilimento Ilva Spa si diffondano gas, vapori, sostanze aeriformi e sostanze solide, contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione del vicino centro abitato di Taranto e, con particolare, ma non esclusivo, riguardo a benzo(a)pirene, IPA di vari natura e composizione nonché diossine, PCB, polveri di minerali e altro» viene data risposta affermativa. A tal proposito viene fatto notare come alle emissioni convogliate dallo stesso stabilimento si debbano aggiungere anche quelle non convogliate (diffuse-fuggitive) e come alcuni dei dati delle emissioni nocive in aria relative al 2010 siano proprio quelle che la stessa Ilva ha comunicato alle autorità competenti per il Registro Europeo delle Emissioni e dei Trasferimenti di sostanze inquinanti. Il secondo quesito si riferisce agli animali abbattuti nel 2008 ed ai terreni limitrofi e chiede «se i livelli di diossina e PCB rinvenuti negli animali abbattuti, […], e se i livelli di diossina e PCB accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto, siano riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva di Taranto». Anche in questo caso la risposta data dai periti è affermativa.
In particolare viene sottolineato come l’analisi dei flussi emissivi permette di affermare che i livelli di diossine e furani accertati possano essere ricondotti in particolare alla specifica attività di sinterizzazione (area agglomerazione) svolta all’interno dell’Ilva. Pertanto la presenza di tali inquinanti viene ricondotta proprio alla presenza del siderurgico e viene affermato come ci sia «una correlazione preferenziale dei contaminanti nei tessuti e negli organi degli animali esaminati con i profili di diossine e furani riscontrati nelle emissioni diffuse dell’Ilva». Il terzo quesito punta il dito direttamente sullo stabilimento chiedendo «se all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto si siano osservate tutte le misure idonee ad evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute dei lavoratori e di terzi», la risposta, in questo caso, è negativa. Le emissioni non convogliate, infatti, sono numerose e varie e si ritiene necessaria da subito l’adozione di ulteriori misure di contenimento.
Gli altri quesiti cercano rispettivamente risposta circa la conformità delle emissioni alle varie normative vigenti, circa la possibilità del verificarsi di situazioni di danno o pericolo e circa la natura delle misure tecniche necessarie per eliminare l’eventuale situazione di pericolo. A proposito del rispetto delle normative vigenti in materia di emissioni, i periti appurano che la mancanza dei sistemi di campionamento in continuo delle emissioni sui vari camini dello stabilimento ne impediscono una verifica puntuale. L’unica norma che appare rispettata è la recente Legge regionale n. 44 del dicembre 2008 sulle diossine ma anche qui restano i dubbi sollevati ultimamente sui metodi di campionamento adottati. Viene comunque evidenziato che «nella maggior parte delle aree e delle fasi di processo sono emesse quantità di inquinanti notevolmente superiori a quelle che sarebbero emesse in caso di adozione da parte di Ilva» delle cosiddette BAT (tradotto: le migliori tecniche di produzione disponibili). A tal proposito, anche in relazione al quesito sulle misure tecniche necessarie, i periti sollecitano la necessità dell’adeguamento di molti degli impianti per migliorarne la situazione emissiva. Viene anche ritenuto necessario vincolare l’operatività degli impianti ai tempi necessari per l’attuazione degli interventi migliorativi. Viene posta nuovamente l’attenzione anche sui famigerati cumuli dei parchi minerari, adiacenti al centro abitato, di cui si suggerisce, ancora una volta, la loro copertura e la successiva applicazione di sistemi di aspirazione.
Il quadro tracciato dalla perizia era ormai noto da anni alla popolazione locale, all’associazionismo e anche alle istituzioni. Tuttavia, la situazione non era mai stata affrontata con l’oggettività propria del percorso giudiziario in esame. Il ricatto occupazionale continua a tenere in scacco, oltre che i circa 12.000 lavoratori ad oggi impiegati, sia le istituzioni che i sindacati i quali fondamentalmente hanno sempre cercato di mediare, in un equilibrio precario, il diritto al lavoro con il diritto alla salute e all’ambiente. L’uscita dall’ormai annosa impasse decisionale è possibile trovarla solo in una nuova programmazione pubblica che punti su un nuovo sviluppo della città. C’è la necessità di una visione di lungo periodo che superi il ricatto occupazionale ponendo da domani le basi lavorative nella bonifica di un terreno e di una città che una volta sanati potranno ripensarsi e sfruttare tutte quelle possibilità economiche che, per via dell’industria non si sono mai potute sviluppare (es. turismo) o sono state gravemente compromesse (allevamento, agricoltura, mitilicoltura). L’Ilva, ad oggi, si può stimare che produca il 70% del PIL della provincia ma è un dato tutto in negativo se lo si proporziona alla perdita economica, sociale e umana indotta dai costi esterni della sua esternalità che ricadono sulla collettività.
Il 24 novembre del 2011, l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha pubblicato un rapporto sui costi dell’inquinamento atmosferico proveniente dagli stabilimenti industriali in Europa. Si stima che l’Ilva, al cinquantaduesimo posto nella classifica delle maggiori fonti d’emissione europee, scarichi sui cittadini europei un costo per ambiente e per la salute valutabile tra i 283 e i 463 milioni di euro. É azzardato fare previsioni immediate sull’iter giuridico in corso, ma è tuttavia possibile affermare che, per Taranto e la sua popolazione, l’unica strada per uscire da un ricatto occupazionale che ha avvelenato per cinquanta anni un intero sistema sociale ed economico è quella di progettare fin da subito una “stagione delle bonifiche” che segua, chiudendola, l’attuale stagione dei veleni. È cruciale aprirla, per le nuove generazioni tarantine, all’insegna di un ripensamento sostenibile dello sviluppo locale e del territorio.
Gabriele Caforio, laureando in Politiche Pubbliche
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