Atti d’intesa che nessun ente istituzionale, così come i nostri “integerrimi” sindacati, si è mai preso la briga di seguire nella loro reale attuazione nel corso degli anni. La sollecitazione alla risoluzione del problema la ritroviamo anche nell’Atto d’Intesa Integrativo del 23 ottobre 2006, per poi ricomparire nel testo della famosa leggere regionale anti-diossina del dicembre del 2008: ma dal 2003 ad oggi, nulla è stato fatto in tal senso. Con l’unico risultato di vedere un intero quartiere, i Tamburi, ricoperti di minerale in ogni dove.
Il perché di tutto questo è presto detto: l’Ilva si rifiuta, da sempre, di procedere alla copertura dei parchi minerali. Per l’azienda siderurgica, infatti, è sufficiente costruire delle barriere frangivento lungo il perimetro dei parchi minerali, in concomitanza con il completamento delle famose colline ecologiche. Il problema è che seguendo il percorso tracciato dall’Ilva, ad essere intercettate sarebbero soprattutto le polveri pesanti aero disperse e solo nella misura del 50%. Per le polveri sottili, dunque, il problema rimarrebbe irrisolto. E, “casualmente”, sono proprio queste ultime (PM10 – PM2,5) le più insidiose per la salute umana in quanto più facilmente si incuneano nelle vie respiratorie veicolando sostanze altamente inquinanti e spesso cancerogene.
Il “progetto” dell’Ilva prevede anche un potenziamento dei meccanismi di irroramento e filmatura dei cumuli di minerali stoccati nei parchi (così come stabilito dagli atti d’intesa e dalla legge regionale anti-diossina): ma siamo sempre di fronte a misure palliative e null’altro. Non va poi dimenticato l’impatto paesaggistico che avrebbe la realizzazione di questo progetto: le barriere frangivento altro non sono che teloni dotati di un’altezza di ben 21 metri disposti per un’estensione di 1600 metri lungo il fronte delle strade per Grottaglie e Statte.
Inoltre, il progetto dell’Ilva prevede la disposizione di questi teloni a valle e non a monte dei parchi minerali: ma anche qualora venissero posti a monte, in realtà il compito di questi teloni consisterebbe più in un “contenimento del vento” che in una vera e propria barriera contro la diffusione delle polveri, visto che riuscirebbero ad intercettare le correnti orizzontali e non quelle verticali.
L’Ilva però, come un bambino capriccioso, sbatte i pugni sul tavolo e si rifiuta di coprire questi parchi minerali per una mera questione di natura economica: null’altro. Certamente il problema non è di natura tecnica, visto che la copertura dei parchi minerali è del tutto fattibile come dimostrò un apposito progetto presentato nel 2005 dal Politecnico di Taranto che prevedeva la realizzazione di particolari tensostrutture.
Non solo. Nel 2011, le due centraline di monitoraggio di via Archimede e via Machiavelli (vicinissime all’area industriale) hanno registrato superamenti dei limiti di legge previsti per la media giornaliera su base annuale di PM10: 40 in via Archimede e 45 in via Machiavelli. Dati che nella pratica rappresentano un rischio sanitario per la popolazione esposta. Diversi studi (SIDRIA, APHEA, MISA 1 e 2, SISTI) hanno infatti accertato la correlazione tra aumento dei livelli di PM10 e diverse patologie nel breve periodo con effetti sia in termini di ricoveri che di decessi.
Particolarmente interessate sono malattie respiratorie e cardiache nel loro complesso, nelle quali Taranto risulta tra le prime città in Italia ad essere colpita con maggiore incidenza. Anche il procuratore capo della Procura di Taranto, Franco Sebastio, nella lettera inviata alle istituzioni dopo la perizia dei chimici nell’inchiesta in corso sull’Ilva disposta dal Gip Patrizia Todisco, parla di “polveri che si diffondono in maniera non controllata dal parco minerali a cielo aperto, situato a pochi metri di distanza dal quartiere Tamburi”. I chimici hanno messo nero su bianco che sono 668 le tonnellate di polveri che ogni anno si disperdono nell’atmosfera da questa area in cui l’azienda deposita piccole montagne di minerale di ferro e di carbone, materie prime che servono per la produzione dell’acciaio.
Una zona che, secondo la relazione, per poter continuare a operare “dovrebbe essere coperta e dotata di impianti di aspirazione e trattamento delle polveri emesse”. Ma l’Ilva, forte anche del fatto che tali indicazioni non sono state inserite nelle prescrizioni previste nell’AIA dello scorso luglio, procede tranquillamente per la sua strada. Ignorando i problemi di un intero quartiere composto da migliaia di persone, oltre che dei circa 400 operai che lavorano negli otto parchi presenti nell’area del siderurgico (quattro sono parchi fossi e quattro quelli minerali).
Ma l’azienda della famiglia Riva, non è l’unica ad ignorare tale situazione: il sindaco in base al suo status di massima autorità sanitaria locale (previsto dalle leggi n. 833/1978 e n. 112/1998) e la Regione con il piano di azione previsto dal Decreto Legislativo 155/2010, avrebbero il dovere di intervenire per tutelare la salute e la sicurezza dei cittadini di Taranto. Avrebbero, appunto. Ma le nostre istituzioni hanno deciso già da che parte stare: ovvero a braccetto dell’Ilva, “industria modello europeo”. Auguri.
Gianmario Leone
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