Piccolo passo indietro. Lo scorso 28 ottobre, il Comitato di Coordinamento per l’attuazione dell’Accordo di Programma tra la Regione Basilicata, la Regione Puglia e il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, emanò una delibero nella quale venivano riviste le tariffe dell’acqua nella sua componente ambientale. In pratica venne deciso di ridurre, a partire dal 1 gennaio 2012, il costo dell’acqua per l’uso agricolo del 25%, lasciando inalterato il contributo delle utenze residenziali, ed aumentando attraverso un percorso di variazione graduale delle tariffe quello per l’uso industriale del 250% per il 2012, del 400% per il 2013 e del 500 % per il 2014. Le variazioni furono calcolate sulla base del costo sostenuto nel 2011 dalle imprese agricole ed industriali, che utilizzano la risorsa prelevata dalla Regione Basilicata.
La revisione del modello tariffario, stabilito dal Comitato nel 2004 ma soltanto in via provvisoria, non è un capriccio dei due enti regionali o del Ministero: rientra infatti nel percorso indicato da una precisa direttiva europea, che prevede come a partire dal 2010 (siamo quindi già in ritardo di un anno, n.d.r.) gli Stati membri debbano provvedere “affinché le politiche dei prezzi dell’acqua incentivino i consumatori a usare in modo efficiente le risorse idriche e perché i vari settori di impiego dell’acqua contribuiscano al recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi per l’ambiente e le risorse”. In realtà, la delibera dello scorso 28 ottobre, fu la logica conseguenza di un braccio di ferro tra la Regione Puglie e l’Ilva che dura dal 2010. E’ noto infatti, che il siderurgico tarantino da sempre consumi ben 250 litri al secondo provenienti dall’invaso del Sinni, per i suoi usi industriali.
Negli ultimi due anni, la Regione Puglia ha cercato invano, attraverso una lunga e complicata trattativa, di convincere l’Ilva S.p.a. ad utilizzare l’uscita del depuratore Gennarini-Bellavista, da realizzare per altro a spese della popolazione tarantina e la cui costruzione sarebbe stata affidata all’Acquedotto pugliese. Al siderurgico, invece, sarebbe andato il compito di provvedere ai costi di gestione dell’impianto adoperato per il “riciclo” dell’acqua. Se avesse accettato la proposta della Regione, la famiglia Riva avrebbe sostenuto un esborso di poco superiore al milione di euro. Ora invece, a partire dal 1 gennaio 2012 e sino al 2014, l’Ilva dovrà sborsare tra i 6 e i 12 milioni di euro. Sino al 31 gennaio 2011, invece, per il prelievo di 250 litri al secondo dall’invaso del Sinni, spendeva “appena” 2 milioni 500 mila euro. “Appena”, sì: perché sicuramente in pochi sono a conoscenza del fatto che sino al 2011, il costo della componente ambientale era uguale per tutti: da una semplice famiglia sino alla più grande azienda siderurgica europea, si sborsavano 8 centesimi di euro a metro cubo.
L’Ilva, però, oltre a dire no a qualunque proposta della Regione Puglia, ora ha deciso di opporsi alle nuove tariffe. Il bello è che i “signori dell’acciaio”, continuando in questa inutile e dannosa politica dello struzzo, finiscono per contraddirsi clamorosamente da soli: non è infatti l’Ilva l’azienda a dover essere presa come modello a livello europeo per il rispetto dell’ambiente? Non è sempre l’Ilva ad aver avviato un “nuovo rapporto” con il territorio, fatto di dialogo continuo e costruttivo? A quanto pare, i narratori del nuovo millennio hanno sbagliato trama. O morale, se meglio preferite. Perché come giustamente ha ricordato l’assessore regionale Amati, la decisione assunta dal Comitato ha lo scopo di incentivare gli utilizzatori a contenere i consumi per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di tutela ambientale stabiliti dall’Unione Europea e di perseguire una politica gestionale più sostenibile delle risorse idriche attraverso le azioni di riduzione (degli sprechi e dei consumi), recupero (quantitativo e qualitativo) e riuso (quale risorsa aggiuntiva). In particolare, la crescita della componente industriale rappresenta una misura di stimolo e sollecitazione all’utilizzo di fonti di approvvigionamento idrico alternative, quali il riutilizzo delle acque reflue affinate. Ma all’Ilva, semplicemente, se ne fregano. Non solo. Opponendosi alla delibera del Comitato, l’azienda della famiglia Riva dimostra totale insensibilità rispetto alle esigenze di risparmio di una risorsa in forte via di esaurimento, visto che da tempo viviamo “in pieno stato di pre-allerta per la siccità incombente”.
Infine, come se non bastasse, l’Ilva mostra ancora una volta totale mancanza di rispetto nei confronti del mondo agricolo, in particolar modo di quello tarantino, che da tempo chiedeva iniziative per la riduzione della tariffe. D’altronde, per chi ha avvelenato con la diossina chilometri e chilometri di terreno, mandando a fallimento diverse masserie della Provincia, con conseguente uccisione di migliaia di capi di bestiame innocenti, irridere il mondo agricolo è un habitué. La Regione, da par suo, difenderà presso il TAR le sue ragioni. Il problema è che, ancora una volta, le nostre istituzioni tacciono e fingono di non sapere. Da quando quest’ennesima sceneggiata ha preso origine infatti, Comune e Provincia di Taranto latitano “misteriosamente”. Idem dicasi per Confindustria e i tre sindacati confederali, spesso allegri compagni di “battaglie legali” dell’Ilva presso il Tar leccese. E’ quasi scontato, dunque, che l’invito di intervenire ad opponendmum nel giudizio a fianco della Regione Puglia, chiesto dallo stesso Amati a Comune e Provincia di Taranto e ai sindacati confederali, cadrà miseramente nel vuoto.
Gianmario Leone
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