Mafia e Stato, la partita raccontata da Ayala sul palco dell’Orfeo
di ALESSIO PIGNATELLI
Sullo sfondo un albero di magnolia, simbolo palermitano della lotta alla mafia. Proprio come quello che campeggia davanti al portone del palazzo di via Notarbartolo, a Palermo, dove abitava Giovanni Falcone assassinato da Cosa nostra il 23 maggio 1992. Poi delle sedie di legno e uno schermo, nient’altro. Si apre il sipario e la scenografia scarna del teatro civile viene riempita dalla figura di Giuseppe Ayala. Dalle sue parole, soprattutto: dirette, incisive, senza fronzoli.
Inizia così lo spettacolo “Chi ha paura muore ogni giorno – I miei anni con Falcone e Borsellino”: l’introduzione è accompagnata da immagini che rievocano terrore e angosce. Scorrono, in bianco e nero, filmati che raccontano i due attentati per eccellenza che per Ayala hanno significato la scomparsa di due amici. Due persone con cui ha convissuto un sogno frantumato sull’altare di una partita sporca: lo Stato si trasformò da complice della giustizia a primo artefice di insabbiature e cospirazioni.
Ayala lo dice senza paure, senza remore: del resto le battaglie sostenute gli hanno conferito una corazza non scalfibile. “Lo Stato aveva deciso di fermare se stesso proprio nel momento in cui stava registrando risultati esaltanti. E perché? Perché la mafia ce l’aveva dentro. Si faccia avanti chi è capace di dare una diversa risposta plausibile”.
Finora non c’è stato.
Ma lo spettacolo all’Orfeo ha regalato anche sorrisi. Amari e anche ironici. Impagabile l’esperienza di ascoltare dalla viva voce dell’amico Ayala la perforante intelligenza di Falcone o la gioiosa convivialità di Borsellino. Il taciturno ma amabile Giovanni in confronto all’ironico e tagliente Paolo. Due personaggi contrapposti con i quali i pezzi sani delle istituzioni hanno cercato di debellare il cancro, la piovra.
Con metodi innovativi, con risultati insperati che portarono alla condanna di 360 malavitosi affiliati a Cosa Nostra nel maxiprocesso del 1987. Cinque anni più tardi la mafia consumò la sua più atroce vendetta e Giuseppe Ayala può raccontarla con pacatezza e fermezza sul palco dell’Orfeo. Insieme a lui, la voce narrante Angela Tuccia e alcuni stralci di intervista dell’epoca: oltre a Falcone e Borsellino, l’ideatore del pool Antonino Caponnetto, poi il pentito Tommaso Buscetta nelle rivelazioni storiche che portarono allo sgretolamento di Cosa Nostra.
Solo parziale, però. Lo ripete ossessivamente Giuseppe Ayala facendo leva su quel che poteva essere ma è stato impedito. E, sia chiaro, non dalla mafia ma dai pezzi dello Stato. Che, irrimediabilmente, si liquefacevano in un’unica amara poltiglia.
Ayala chiude il suo monologo, anzi il suo incontro con la gente, lasciando in eredità un messaggio di speranza. Il metodo Falcone, le intuizioni di Borsellino, la vita di Chinnici, di Cassarà e di tanti altri non siano vano esempio. Anzi, gli “uomini con le palle, non gli eroi” hanno regalato un’opportunità per le nuove generazioni: seguire il loro modello è la strada maestra per tornare a vincere la battaglia. Senza condizionamenti, senza timori. Perché “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
N.B. Lo spettacolo è andato in scena il 24 ottobre.